Di Adolfo Tamburello*
Napoli, 23 mar. - Già l’unificazione della Cina con la fine dell’impero Zhou nel 1681 aveva dato il destro ai Qing di spingersi contro i mongoli occidentali di Bunri e i suoi koshoti alleatisi a Wu Sangui. I koshoti dagli anni ’40 del Seicento avevano instaurato una preminenza sul Tibet, ma erano successivamente sopraffatti dagli zungari di Galdan che estendeva il proprio potere alle oasi centroasiatiche portandosi fin nella Mongolia orientale e minacciando i Khalkha sudditi o meno dei Qing per calare come si temeva su Pechino.
Dagli anni ’90, liberato l’Amur dai russi e dissolta l’alea di un’alleanza russo-mongola col riuscito trattato di Nerchinsk, Kangxi concentrava la sua lotta a Galdan premunendosi della fedeltà dei Khalkha e guidava personalmente nel 1696 una forte spedizione armata d’artiglieria pesante fornitagli dagli arsenali sovrintesi dai gesuiti di Pechino. Avuta la meglio sulle forze zungare, metteva in fuga Galdan che moriva l’anno dopo probabilmente per mano dei suoi stessi uomini del seguito.
Stralciamo dal compendio di Luciano Petech su Kangxi in quel momento storico: “K’ang-hsi iniziò una grande politica imperiale, quale non s’era più vista dall’epoca di T’ang T’ai-tsung […]. Nei riguardi della Mongolia la politica di K’ang-hsi fu abilissima. Egli trattava con i capi mongoli nella sua qualità di Han (Khan) dei Manciù, quindi di un grande e potente signore semi-nomade, che chiedeva l’obbedienza dei suoi pari. I principi mongoli si sentivano così legati a lui da un vincolo personale di fedeltà feudale […]. Dopo un millennio il Gobi era di nuovo incorporato nell’impero, sia pure con larga autonomia interna; non vi fu infatti introdotta l’amministrazione cinese, ed i principi mongoli corrispondevano direttamente con l’apposito ufficio di Pechino”.
Leggiamo più nei particolari in Piero Corradini (Cina. Popoli e civiltà in cinque millenni di storia, Firenze 2005): “…al di là della Grande Muraglia gli imperatori manciù, e Kangxi in particolare, usavano mantenere con gli altri popoli non un atteggiamento da “Figli del Cielo” ma da qaγan nella tradizione gengiscanide che avevano ereditato. Lo stesso zar di Russia veniva considerato un qaγan anche se il più occidentale e ne è prova il fatto che tutti gli affari relativi alla Russia venivano trattati a Pechino, fino al 1860, dal Lifanyuan, cioè dall’apposito ufficio che i Mancesi avevano costituito per trattare gli affari dei Mongoli e delle altre popolazioni centroasiatiche”.
La duplice articolazione dell’impero, l’una facente capo al Ministero dei Riti per i rapporti della Cina coi suoi paesi tributari, l’altra al Lifan yuan sarebbe stata una delle ragioni per cui gli alti funzionari cinesi avrebbero sempre percepito straniera la dinastia e, tra l’altro, disapprovata la rinuncia a colonizzare e “sinizzare” i popoli sottomessi e a dilatare il Zhongguo oltre la “Grande Muraglia” preesistente. Le aree occidentali esterne (comprese quelle dell’odierno Xinjang), come pure della Mongolia orientale e della Manciuria erano organizzate in governatorati militari per lo più sotto il comando di mancesi e con le aree tribali sotto capi locali. Persino a Taiwan, annessa alla prefettura del Fujian, si intensificava di poco la sinizzazione degli abitanti, e norme severe ne restringevano i flussi immigratori dalla Cina a salvaguardia delle popolazioni indigene: una delle ragioni per cui fino al primo Novecento molti “aborigeni di Formosa” rimasti intoccati dalla civiltà cinese offrivano prezioso materiale di studio all’etnografia e all’antropologia culturale.
All’interno della Grande Muraglia, sottoprefetture e prefetture facevano capo a governatorati provinciali stabiliti in numero di diciotto; le province ritenute strategiche erano abbinate sotto governatori generali mancesi. Per la Cina Luciano Petech scriveva ancora: “All’interno K’ang-hsi spiegò un’attività inconsueta in un imperatore cinese. Pieno di buon senso e di praticità, formidabile lavoratore, egli si occupò dell’economia dell’impero, in piena ripresa alla sua epoca”. A conferma di questo, gli anni di relativa pace che seguirono nell’immediato intrattennero Kangxi fin dal 1689 in un secondo viaggio nella Cina del Sud seguito da un terzo dieci anni dopo. Si faceva altre esperienze per intervenire efficacemente nelle amministrazioni delle province e soprattutto per farsi conquistare sempre più dalla cultura e dalle arti cinesi del “meridione”, che lo maturavano fine letterato, poeta e calligrafo, mentre incontrava artisti ed eruditi che chiamava a partecipare alle inesauribili iniziative editoriali di raccolta dell’intero scibile cinese.
Con lui la Cina si stava effettivamente riprendendo dal periodo dell’invasione e delle guerre civili. La riapertura dei porti meridionali richiamava il popolamento della fascia costiera favorito dai sussidi ai vecchi sfollati e ai nuovi migranti (molto regolati di numero ripetiamo per la nuova Taiwan Qing), e la popolazione tornava a crescere dagli inoltrati anni ’80, rasentando i circa 130 milioni a fine secolo o primo Settecento con gli oneri fiscali alleggeriti, il contadinato impegnato in buona parte in piccoli appezzamenti, l’ordine garantito da un regime severo contro corruzione e abusi capillarmente cercati e puniti. Il funzionariato cinese, al pari di quello mancese o mongolo, era efficiente e legato a e da alti stipendi, comunicazioni e trasporti specie navali in rapido recupero per le opere pubbliche e il rinnovamento delle flotte insieme con quelle marittime, produzione e distribuzione in aumento sia per le derrate commestibili sia per le materie prime artigianali e industriali. In cifre di milioni si contavano le maestranze e gli operai per i filati e i tessuti di seta e cotone al centro e al sud; ad alta produzione saliva il velluto, mentre nel nord si intensificava la produzione laniera; in volumi industriali le cartiere e nuovamente a pieno regime le fornaci per la porcellana e le fabbriche di lacche sia per le forniture all’interno sia quelle destinate all’esportazione. Innovazioni tecniche e stilistiche adeguavano le produzioni a quelle giapponesi suggerite dagli europei e in particolare nell’ultimo mezzo secolo dall’agenzia olandese di Deshima.
La nave francese Amphitrite tornava dalla Cina nel 1703 con un carico di sole lacche. I traffici navali riaperti si intensificavano: col Giappone, la Corea, le Filippine, il resto del Sud Est Asiatico e con l’India, ma era solo una parte dell’interscambio commerciale che la Cina nel suo insieme operava per via di terra con l’intero continente euroasiatico. La Russia era l’ultima a entrare di peso nei traffici, alcuni dei cui volumi raggiungevano il resto d’Europa. Il tè diventava ora di consumo non solo in Asia; Europa, Africa e America richiedevano sempre più alte forniture di porcellane e lacche, la cui richiesta saliva col concomitante aumento di consumo di caffè e cioccolata,.
Il relativo benessere all’interno, non generale ma diffuso su vasti ceti urbani, tacitava i movimenti eversivi, quelli dell’irriducibile lealismo Ming e delle varie sette iniziatiche più o meno segrete ammantate di valori etici e religiosi. La religione dominante rimaneva il buddhismo articolato nelle sue varie scuole, con prevalenza del lamaismo in aree mancese e mongola più sensibili o prossime all’influenza culturale tibetana; presso i ceti alti faceva presa il buddhismo chan con fini misture col taoismo filosofico, mentre a livelli popolari il taoismo religioso costituiva un sincretismo taoista-buddhista dalle mille sfaccettature locali. In quanto al cristianesimo la sua diffusione rimaneva circoscritta alle aree di missione. A Pechino arrideva qualche successo iniziale alla chiesa ortodossa, la cui prima di Albazin riviveva ora nella capitale con la missione russa e la comunità slava che s’infoltiva dopo la visita della delegazione di Isbradt Ides del 1692-93 per regolare sul piano commerciale l’interscambio russo-cinese. Il cattolicesimo, con la libertà di culto concessa da Kangxi nel 1692, vedeva chiudersi il secolo con le più rosee prospettive di predicazione e apostolato, se non fosse che ingrossavano le fazioni all’interno del clero avverse ai gesuiti. Giudicati questi ultimi permissivi, le prime facevano vanto di un rigorismo portato da casa e allertato contro ogni forma di pratica apparente o palese di professa idolatria o superstizione.
I gesuiti, d’altra parte, si sentivano paghi dei successi avuti e dei riconoscimenti che continuavano a raccogliere: era a loro che i cinesi dovevano i progressi tecnici e scientifici compiuti durante il secolo nei campi delle arti balistiche, orologeria, più in generale nella meccanica e nella stessa idraulica; nelle scienze soprattutto in astronomia, computo del tempo e matematica. Il gesuita fiammingo Antoine Thomas, che succedeva ad Adam Schall von Bell e a Ferdinand Verbiest nella carica di direttore dell’Osservatorio di Pechino, proponeva il calcolo di una nuova unità di misura del li sulla base del meridiano terrestre.
Intanto, col braccio di ferro ingaggiato col padroado portoghese, Propaganda Fide era riuscita, grazie alle Missioni Estere di Parigi, a stabilire l’istituto del vicariato in Cina e nominare i primi vescovi coi quali veniva però modificandosi anche la composizione degli oppositori ai riti. Se Charles Maigrot, primo vicario apostolico delle Missioni Estere di Parigi emanava nel 1693 un decreto ingiuntivo di severo veto dei riti, la reazione era da subito avversa a lui pure da parte dei francescani spagnoli che, provenuti dalle Filippine fin dal 1633 avevano fatto in primo momento stretta lega coi domenicani nella condanna dei riti. Lo rileva Cinzia Capristo in Cina e Occidente. Incontri e incroci di pensiero, religione e scienza (Milano 2015): “furono molti i francescani [spagnoli] che ignorarono il veto del cosiddetto Mandatum di Maigrot e che continuarono a osservare la pratica gesuitica” e ancora: “ Negli anni del suo primo insediamento, la missione francescana italiana aveva assunto posizioni di grande prudenza e prendeva anch’essa le distanze dal mandatum del Maigrot, come avevano fatto i missionari spagnoli che si erano sospesi dall’esercizio del loro ministero” .
I francescani italiani erano giunti in Cina inviativi da Propaganda Fide nel 1684. Spiccano i nomi di Bernardino della Chiesa (1644-1721) e del suo collaboratore Basilio Brollo (1648-1704), quest’ultimo autore fra l’altro nel 1694 e 1699 di un dizionario cinese-latino lasciato inedito in due versioni di 7000 e 9000 caratteri, opere che guidavano generazioni e generazioni di missionari in Cina e primi sinologi.
Negli stessi anni era in Cina il grande viaggiatore calabrese Francesco Gemelli Careri che la visitava da turista, come lui affermava, da Canton a Pechino e ritorno. Ne dava un quadro ammirato nel suo Giro del mondo, che al ritorno cominciava a pubblicare a Napoli dal 1699 presso la stamperia di Giuseppe Roselli.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
23 MARZO 2016
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