Di Adolfo Tamburello*
Napoli, 03 mar. - In funzione di quella tanto avversata storia universale che, uscita dalla porta a fine Ottocento, è rientrata dalla finestra con la storia “globale” di oggi, rimane da saperne di più su come la Cina abbia condiviso sia pure a modo proprio la “crisi generale del Seicento” della storiografia europea. Senza ricorrere a comparativismi, ma sì ad analogie, paralleli, influenze reciproche, contatti e apporti diretti e indiretti, si tratterebbe di approfondire ricerche e conoscenze in ambiti di studi che potrebbero forse iniziare da come e quanto viaggiavano in quel secolo le epidemie per fare la falcidie che ottennero, soprattutto di vaiolo, sia in Cina sia in Europa con le guerre e le carestie che infuriavano nell’una e nell’altra parte del continente euroasiatico e, senza che ancora si sappia, altrove. Di vaiolo era forse morto a Pechino l’imperatore Shunzhi (1638-1661) e si era ammalato bambino il figlio Kangxi (1654-1722) uscitone guarito e immunizzato, e, si vuole, proprio per questa sua acquisita e risaputa immunità, fatto salire al trono. Nel 1645, agli inizi della conquista mancese, scriveva Jacques Gernet nel suo Il mondo cinese: “tutti i cinesi colpiti dal vaiolo - in realtà, tutti quelli affetti da malattie della pelle - sono scacciati da Pechino”.
La Cina aveva però messo in atto un efficace sistema di immunizzazione che il secolo dopo anche l’Europa veniva conoscendo (ignoriamo ancora se direttamente dalla Cina o dal Giappone o più genericamente dall’Asia). Leggiamo sempre in Gernet fra i tanti che ne hanno scritto: “ La vaiolizzazione, praticata correntemente in Cina fin dal XVI secolo, consisteva nell’inoculare nella narice del paziente una piccolissima quantità del contenuto di una pustola del vaiolo. Era, prima della scoperta della vaccinazione in Europa, l’applicazione del suo principio: i Cinesi avevano cercato il mezzo di attenuare la potenza del virus. Il procedimento, passato in Turchia durante il XVII secolo, cominciò ad essere conosciuto in Europa agli inizi del XVIII. Nel 1718, Lady Montagu, moglie dell’ambasciatore d’Inghilterra a Costantinopoli, aveva fatto inoculare tutta la famiglia”.
Il Seicento era il secolo in cui si diffondevano in Europa le conoscenze della medicina cinese. Sappiamo da Loris Premuda che a Grenoble apparivano a stampa le Searches de la medicine des Chinois di un anonimo gesuita francese, tradotte in italiano nel 1676 e in inglese nel 1707. L’Italia ospitava al ritorno dalla Cina molti gesuiti che informavano sulle scienze cinesi. Era anche l’epoca del boom dei giardini e orti botanici, ove affluivano piante indiane, cinesi e giapponesi, molte curative, altre che incrementavano la stessa agricoltura europea e l’arboricoltura da frutta, con limoni e arance che entravano sul mercato. Grande impulso avevano la sericoltura e la manifattura della seta ed entrambe contribuivano a cambiare a fondo il modo di fare industria tessile, mentre pure il cotone era in arrivo.
La prima a soffrirne era l’Inghilterra con le importazioni delle Compagnie delle Indie (la sua e quella olandese, da fine secolo le altre, a cominciare da quella francese). Persino il Parlamento inglese doveva prendere misure restrittive dal 1681. La crisi non riguardava solo il tessile, ma un po’ tutte le industrie, e aveva una causa quanto meno fortemente concomitante in un fenomeno che è stato marginalizzato nell’esotico di una moda chiamata chinoiserie che dapprima aveva avvinto i nababbi e tutto il personale europeo delle Indie. I religiosi viaggianti seguivano a ruota, in più casi per condiscendenza al gusto e al mercato. Poco sappiamo dei marinai e degli equipaggi in generale che avevano individualmente diritto a bagagli e carichi personali. Chissà le mercanzie che portavano con sé e quelle che trafficavano al ritorno. E la chinoiserie non fu solo questo: fu purtroppo per l’Europa, una pagina di grave passivo in termini di macroeconomia con tutto ciò che l’accompagnava in investimenti, compreso il tè proveniente dalla Cina e dal Giappone, non ancora dall’India. Per la prima volta nella sua storia, l’Europa, con porcellane e lacche, disponeva in abbondanza di recipienti assolutamente impermeabili come il vetro e di più vasto impiego. Non parliamo della bigiotteria sfusa o di quella riservata o delle carte da parato cinesi che dagli anni ’90 invadevano il mercato europeo per regge e case signorili. Si trattava non solo di capitali che uscivano dall’Europa, ma anche di lavoro portato e retribuito all’estero ed è questo che significa quella che era allora chiamata Chine de commande.
Dalla metà a fine Seicento la conquista mancese della Cina metteva in ginocchio molte industrie cinesi e la Compagnia olandese si rivolgeva all’export dal Giappone che distribuiva in Europa non meno di 190 mila pezzi di sola porcellana in meno di mezzo secolo. Seguivano lacche e altri prodotti e cominciava a essere richiesta sul mercato internazionale persino la salsa di soia giapponese, lo shoyu, gradito in Francia al palato persino del Re Sole. Anche in Giappone come in Cina affluivano molto oro e argento europei prima dalle colonie americane portoghesi e spagnole in transito per l’Europa e i canali di Macao e delle Filippine, poi dalle Compagnie delle Indie. Ci chiediamo se non era anche in parte con e per quelle ricchezze che il Giappone di Hideyoshi tentava a fine Cinquecento l’invasione della Cina occupando la Corea, e per la stessa ragione successivamente i mancesi si davano alla conquista della Cina e dell’Asia centrale, contrastando vanamente i russi al Nord che si affacciavano dal primo Seicento fino al Pacifico.
Nelle guerre del Giappone e della Cina le potenze europee si astenevano dall’intervenire militarmente benché richieste e attese. Un aiuto lo davano in alcuni casi gli europei presenti in loco, come i portoghesi di Macao per la Cina con piccoli contingenti militari e armi da fuoco, o gli olandesi a favore dei mancesi contro la pirateria in complicità coi Ming. Ma si trattava di aiuti secondari che non cambiavano il corso della storia di quei paesi. L’Europa cattolica non dava alcuna mano in difesa dalle persecuzioni cristiane che infierivano in Giappone, e semmai quella protestante rappresentata dagli olandesi della loro Compagnia si prestava alla strategia dei Tokugawa di perseguitare i cristiani o far cacciare gli altri europei per rimanere i soli a meritarsi una base in Giappone.
Le lotte religiose in Europa si temperavano durante quel secolo, ma gli antagonismi e le rivalità cattoliche fra i vari ordini si riversavano fino in Cina con la devastante “questione dei riti”. In Italia, a causa delle epidemie di peste e vaiolo, si registrò persino un forte calo delle vocazioni missionarie e in particolare decrebbe il numero dei nostri religiosi in Cina. La Francia fondava fin dal 1663 il Seminario delle Missioni Estere di Parigi e forniva alla romana Propaganda Fide i primi sacerdoti secolari per le missioni al di fuori dei patronati iberici. Alla fine del secolo legava alla propria causa nazionale anche i gesuiti con l’invio in Cina dei primi gesuiti “matematici del re di Francia”, che loro più anziani colleghi (leggi Philippe Couplet e compagni) erano forse riusciti a persuadere Luigi XIV (1638-1715) ad apprendere tutto quel di buono (si fa per dire) che c’era nel “dispotismo illuminato” cinese: era la stagione francese della monarchia assoluta e del suo spinto mercantilismo; doveva ancora subentrare l’altro “modello” pure cinese della fisiocrazia e l’imitazione fatta in casa della chinoiserie, la quale avrebbe rimesso in carreggiata molte industrie europee e contribuito a ridare slancio all’Europa.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
24 FEBBRAIO 2016
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