Di Adolfo Tamburello*
Napoli, 28 feb. - Eventi orribili si erano susseguiti a Pechino dal 1661, fine Shunzhi-inizi Kangxi, con quest’ultimo settenne regnante nominalmente sotto tutela: in quell’anno era eseguita la condanna capitale a Pechino di Zheng Zhilong, padre di Coxinga, per morte lenta; nel 1663 il “caso” del Mingshilue, la storia dei Ming di Zhuang Tinglong, stampata nel 1660 e giudicata sovversiva e anti-Qing, provocava lo sterminio di intere famiglie; nello stesso anno erano incarcerati e posti sotto processo i gesuiti a corte, e nel 1665 Adam Schall von Bell e Ferdinand Verbiest erano condannati a morte lenta e infine prosciolti da ogni addebito e restituiti entrambi ai propri posti di astronomi e matematici. Schall moriva l’anno dopo per l’età e le torture subite. Gli altri gesuiti erano rinviati a Canton. La ferocia del regime era forse la buona ragione perché nel 1669, quando all’età di quattordici anni Kangxi prendeva effettivamente le redini del potere, promulgava le “sedici massime” del “Sacro editto” (shenyu), confermando le linee guida di un regno le quali seguivano quelle del padre Shunzhi ed erano anche intese a riscattare la memoria del genitore al giudizio dei posteri.
Il 1669 era soprattutto per Kangxi la liberazione definitiva da Oboi che moriva nell’anno ma non prima di aver ricevuto da lui un tangibile segno di mitezza col vedersi graziato della pena di morte. Diviso con misura fra le sue origini mancesi e l’educazione paterna filo-cinese, Kangxi si apprestava a rivestire i ruoli di kagan o khan per mancesi e mongoli e di huangdi per la Cina e i suoi tradizionali regni vassalli (Corea, Vietnam…). Fin dall’inizio del lungo regno che doveva durare fino al 1722, non faceva obiezioni che mancesi e mongoli o popolazioni loro affini o assimilate conservassero gli statuti tradizionali compatibili con le proprie economie, usi e costumi. Esigeva solo l’obbedienza e la fedeltà dei loro capi riconosciuti da lui come tali. Per la Manciuria andava oltre: manteneva in vigore il veto emanato nel 1668 ai cinesi di immigrarvi, misura che potrebbe essere interpretata oggi a tutela di un “ecosistema sostenibile” (cavalli e cavallerie della tundra e della foresta, in generale allevamento di bestiame e pastorizia, agricoltura “mista”, sublimazione dell’economia di raccolta con prima voce di valore il jinseng per consumo interno ed export, estrazioni minerarie). Era ovviamente un provvedimento a salvaguardia della sopravvivenza dell’etnia tungusa dei mancesi e tacitare lo spirito anti-cinese di molte delle loro elite.Per la Cina non avrebbe tollerato “re”, reucci, principi di sangue o tanto meno non di sangue, signori di suoli o uomini quali al momento ancora permanevano: i “Tre Feudatari” e altri minori, i Zheng del regno di Dongning a Taiwan.
Contro costoro indugiava molto a prendere le armi, e forse nel ricordo di Zheng Zhilong e nella personale ammirazione dei Zheng non solo come fedeli lealisti Ming. Vi ricorreva solo dopo che la guerra civile insorta nel 1673 al rifiuto di Wu Sangui e compagni di restituire i loro feudi dava il destro a Zheng Jing di recuperare Xiaomen e Jingmen e di occupare sul continente un’area fra Quanzhou, Zhangzhou e Chaozhou. Nel 1681, caduto l’impero Zhou di Wu Sangui col suicidio del figlio Wu Shifan, la sconfitta inferta a Zheng Jing costringeva questi a riprendere il mare per Taiwan ed era allora che Kangxi dava il benestare a Shi Lang di effettuare una spedizione armata per l’annessione dell’isola, passata frattanto, con la morte di Zheng Jing, sotto il regno del figlio Keshuang che si arrendeva.L’annesione di Taiwan la faceva tuttavia senza convinzione: per lui l’isola rappresentava un pesante fardello, e magnanimo era il trattamento riservato a Keshuang che l’aveva ceduta arrendendosi e al quale Kangxi conferiva un titolo nobiliare e il comando delle truppe al suo seguito aggregate a una delle bandiere.
L’anno successivo, 1684, quasi per prendere pieno possesso della Cina, Kangxi compiva il primo dei numerosi viaggi nel basso Yangzi e gran parte della Cina al fine di rendersi conto di persona cos’era e in quali condizioni fosse il paese di cui praticamente solo ora si apprestava a regnare nella sua interezza. Il viaggio fu a dir poco trionfale. Il clima di pace subentrato alle lunghe guerre aveva già dato i suoi frutti con le misure adottate per un risollevamento economico generale. I porti meridionali erano stati riaperti e i traffici ristabiliti sia lungo le coste sia con l’estero. Dal 1669 aveva proceduto a ridare il possesso ai contadini di tante terre per l’innanzi requisite e a ridurre le imposizioni fiscali, mentre si vedevano già i risultati della ripresa crescita agraria con gli interventi idraulici collegati ai grandi lavori di risistemazione del Grande Canale imperiale e del corso del Fiume Giallo e dello Huai.
A livello di elite si assopiva, quando non si spegneva, il lealismo Ming e si generalizzava l’accomodamento alla diarchia sino-mancese col governo che tornava a recuperare a tutti i livelli l’elemento etnico Han pienamente equiparato al mancese. Al suo attivo Kangxi aveva il ripristino della Corte Interna (neige) con alta partecipazione di dignitari cinesi, la restaurazione dell’Accademia Hanlin rinfoltita dei 152 candidati chiamati per concorso ad assumere la compilazione della Storia ufficiale dei Ming (Mingshi): l’opera che avrebbe impegnato generazioni di studiosi e si sarebbe conclusa solo nel 1739, posta in fase preparatoria nel 1682 sotto la direzione del letterato cinese Xu Qianxue (1631-1694). Kangxi si era inoltre circondato per il suo studio personale e quello di palazzo di una folta schiera di artisti cinesi, calligrafi, pittori, scultori, architetti, ceramisti per ristabilire ufficialmente una diretta continuità delle arti Ming e imprimere con uno staff di tecnici un rinnovato impulso alle manifatture e agli opifici imperiali.Solo per i letterati faceva alcuni distinguo: nel disdegno di quella che giudicava una letteratura licenziosa o addirittura pornografica intraprendeva nel 1686-87 una prima campagna di censura in nome di un’ortodossia morale che metteva all’indice una serie di opere e incontrava fra l’altro la piena condivisione da parte dei letterati più rigidamente “confuciani”. Era tuttavia un segnale d’allarme che cominciava a mettere in guardia per tutto ciò che stampato e letto potesse suonare “eterodosso” e perseguito.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
24 FEBBRAIO 2016
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