Di Adolfo Tamburello*
Napoli, 10 feb. - Nono figlio di Huang Taijin, Fulin (1638-1661) ne fu scelto successore dallo zio paterno Dorgon (1612-1650) ed eletto imperatore nel 1644 a Pechino all’età di sei anni proclamata decaduta la dinastia Ming. Mantenuta l’innovazione Ming d’un unico nome di regno a vita, il suo fu quello di Shunzhi (1644-1661). Per la minore età, fu sotto la reggenza di Dorgon (1612-1650) e Jirgalang (1599-1655), con quest’ultimo in posizione subalterna e dal 1647 desautorato della reggenza. Militare più che statista, Jirgalang fu principalmente lui a subentrare nelle campagne nella Cina centrale e meridionale prima di passarne i comandi ai figli, mentre Dorgon poneva le basi di un duro ed efficiente governo di ben poca corruzione e tanto meno strapotere d’eunuchi fuori dell’orbita dei ginecei. Rimangono dubbie le vere motivazioni del decreto del 1645 che imponeva ai cinesi pena la morte l’acconciatura mancese a cominciare da quella della treccia, il cosiddetto “codino”: vissuta giustificatamente come un’onta di sopraffazione sul popolo vinto e in vane rivolte seguite da massacri, ebbe l’effetto di assimilare esteriormente le etnie suddite dell’impero han e non han, prima che lo facessero le prole dei matrimoni misti, rimasti proibiti ai nobili per la salvaguardia dell’identità etnica minoritaria e pur con generose progenie da concubine cinesi.
Violenze ed efferatezze subirono nell’immediato gli abitanti di Pechino e delle città man mano occupate, sloggiati dalle loro case e forzati a evacuare i quartieri assegnati agli uomini delle bandiere; atroci gli stermini in massa degli abitanti che resistevano alle occupazioni e altrettanto quelli sul fronte Ming delle popolazioni che rifiutavano di battersi o si arrendevano: un clima cruento e di terrore di vari decenni da ambo le parti sino alla conquista finale. Questa Shunzhi non la vide, morendo nel 1661ventireenne: l’ultimo regnante Ming cadde nel 1662 e nell’estremo meridione e a Taiwan lo stato di guerra durò fino al 1683 con la capitolazione dell’effimero impero Zhou e quella di Formosa con l’estrema resa dei Zheng. Questi furono i primi successi del figlio di Shunzhi, salito al trono col nome di Kangxi (r. 1661-1722), erede di un impero che solo la sua sagacia seppe unificare e consolidare.
Fino alla morte di Dorgon l’ultimo giorno del 1650 il trono di Pechino era sì saldo, ma i rischi che i mancesi fossero rigettati almeno dal Sud permanevano tutti e forse solo la ripresa della reggenza di Jirgalang indebolì la resistenza Ming con l’attenuazione nei territori di conquista dei regimi di schiavitù per l’innanzi instaurati sui contadini con la confisca dei loro suoli a beneficio dei “campi recintati”delle bandiere; contestualmente erano mitigate confische e imposizioni fiscali sui grandi possidenti, e dal 1656, l’anno dopo la morte di Jirgalang, estesi a tutti i cinesi gli esami di concorso ai posti pubblici: una politica, questa, di ripresa continuità Ming che si rivelò efficace per attrarre le simpatie delle giovani leve han al nuovo regime che a quel punto cominciava a prospettare un domani migliore rispetto a quello vissuto dalle generazioni precedenti sotto la rapacità degli ultimi Ming o che continuavano a vivere sotto le “satrapie” (così definite da Fairbank) dei “Tre Feudatari” o poi sotto l’impero Zhou di Wu Sangui.
Stati di belligeranza o di guardia armata i Qing intanto li sostenevano anche al Nord da un lato nei confronti dei mongoli rimasti a Occidente estranei o infidi ad alleanze con le loro compagini, dall’altro coi russi, le cui spedizioni arrivavano ormai al Pacifico. Contro di loro era tenuto in armi il controllo sulla piazzaforte di Albazin; contro i mongoli di religione lamaista era messa in atto al momento una coinvolgente politica di attrazione del Tibet tramite il V Dalai Lama invitato a Pechino nel 1652 con tutti gli onori.
Il destino di Pechino era di lì a poco quello di tornare a diventare il grande centro di stampa di opere buddhiste tibetane e mongole, e per tutto il secolo successivo la dinastia avrebbe patrocinato traduzioni di testi tibetani in mongolo e in mancese. Se ciò era accolto non senza preoccupazioni dal restante clero buddhista, tanto che prelati chan tornavano a lasciare la Cina per il Giappone, i Qing davano prova di far leva abbastanza oculata sulle fedi e i valori spirituali delle singole nazionalità. Per il lamaismo interveniva la valutazione obiettiva della sua importanza politica come chiesa di grande seguito fra mongoli e mancesi.
Apprestandosi a pianificare i confini del loro impero estesi all’Asia centrale, i Qing avrebbero finito col costituire uno stato plurinazionale con riconosciute distintività etniche e culturali dei vari paesi. Sul piano istituzionale, l’antico libu, il ministero delle cerimonie, manteneva competenza sui rapporti con paesi in stato di sudditanza come la Corea, il Vietnam, le Ryûkyû. Un nuovo organo, il Lifanyuan, equivalente a una Soprintendenza delle Dipendenze, era incaricato dell’amministrazione e del controllo del Tibet, della Mongolia interna e successivamente del Turkestan. Documenti e atti erano redatti in mancese, cinese, calmucco, tibetano, in turco orientale e scrittura araba; allo scopo erano compilati e pubblicati vocabolari poliglotti a prosecuzione di quanto già i Ming avevano promosso coi loro lessici per gli uffici di interpretariato.
Nei confronti degli europei le prospettive volgevano al meglio. Coi portoghesi era sorvolato che costoro avevano aiutato militarmente i Ming; d’altra parte benefici delle armi da fuoco europee erano provenuti anche a loro. Macao si era sottomessa tempestivamente e le era concesso il monopolio dei commerci e la regolare frequenza di Canton. Alla corte di Pechino i gesuiti che non si erano allontanati avevano agio di offrire i loro servigi ai nuovi padroni e dal 1653 erano alla direzione dei servizi d’Astronomia e matematica e ufficialmente incaricati di sovrintendere alla revisione del calendario. Johann Adam Schall von Bell (1591-1666), arrivato in Cina nel 1622 e che Shunzi chiamava confidenzialmente nonno (mafa), gli era consigliere molto ascoltato com’erano vicino a lui i suoi figli, comportandosi semmai pregiudizialmente verso la Compagnia olandese delle Indie orientali, che alla missione tributaria del 1656-57 sembra le facesse concedere non più di una visita ogni otto anni.
Nello stato di divisione della Cina che si prolungava ancora con esiti incerti, posizioni di disagio le vivevano un po’ tutti i missionari costretti a parteggiare chi per i Qing chi per i Ming a seconda delle loro sedi d’apostolato; la pativano però soprattutto i gesuiti sparsi fra gli uni e gli altri; i francescani, che si erano riaffacciati in Cina dal 1631 si trovavano per lo più sotto i Qing come nella missione dello Shandong o a meridione nel Fujian o nel Jiangnan; ma neppure la spaccatura in due del paese dissuadeva molti di loro dall’acuire la questione dei riti, facendo mordere il freno a tanti gesuiti che di quella questione erano stati i primi istigatori col dibattito fra loro acceso se i cinesi avessero o non avessero coltivato nell’antichità credenze solo pagane o anche concezioni puramente spirituali del divino. I gesuiti avevano ottenuto con Nicolas Trigault nel 1615 addirittura la dispensa papale di celebrare i servizi liturgici in cinese anziché in latino, ma questo ormai i gesuiti disperavano di attuarlo coi rilievi mossi già fra loro a come tradurre in cinese i vari nomi cristiani… Quante vite vanamente spese da volenterosi traduttori, e fra i primi da quella del nostro Alfonso Vagnoni (1566-1640)! Chissà come potevano andare le cose con un apostolato più pacifico e coeso…
Certo i Qing non sarebbero mai stati prossimi a farsi cristiani come si vuole fossero disposti gli ultimi Ming. Shunzhi, vissuto da bambino a corte fra concubine ed eunuchi, era cresciuto “cinese” in anima e corpo e se proprio non capiva lo zio Dorgon che era rimasto a tutti gli effetti un mancese per quanto si voglia sinizzato, figuriamoci se poteva capire uno Schall von Bell copernicano o ormai galileiano con una dotazione teologica da correggere in molti punti riguardo allo storico geocentrismo cristiano che odorava di sacrilegio agli stessi cinesi.
Ci piace interpretare Shunzi di mente aperta e riflessiva con temperamento di letterato e studioso. Diventato sovrano a Pechino di una nuova dinastia che aveva proclamato la fine della precedente prima ancora che fosse in realtà estinta, manifestava coerentemente il parere, con fine humour, che si intraprendesse subito una Storia dei Ming, com’era d’uso quando una dinastia succedeva a un’altra, e fosse chiamata a compilarla senza indugi un’equipe dei più famosi letterati cinesi. Con altrettanta coerenza sollecitava e otteneva solenni onoranze per la sepoltura dell’ultimo dinasta di Pechino Chongzhen e benemerenze per tutti i leali servitori Ming. In quanto alla conduzione del governo, poteva consentire che al momento Dorgon puntasse a Pechino su una diarchia sino-mancese, ma non coi mancesi in posizioni di superiore prestigio e prebende e non con le bandiere che sfuggivano di mano al legittimo sovrano del Celeste Impero. Infatti, tre di queste e di maggior prestigio passavano obtorto collo sotto il suo diretto comando. Con Jirgalang le cose gli andavano meglio: era istruito un processo post-mortem a Dorgon e tanti provvedimenti da lui presi revocati; gli era possibile zavorrarsi di eunuchi e di concedere loro fin dal 1653 il controllo dei “Tredici Uffici” di corte (shisan yamen); ma anche Jirgalang era dopotutto un mancese e Shunzhi dovette aspettare che morisse per potere dal 1658 parificare di grado e stipendi i funzionari cinesi con quelli dei mancesi e dei mongoli.
Dubitiamo che fosse una fortuna la sua morte prematura nel 1661, come hanno scritto alcuni storici. Alla sua morte, il testamento gli fu manomesso a ritrattazione dei suoi decreti filocinesi, e solo Kangxi quando prese le redini del potere poté ripristinare le volontà paterne, ma erano passati alcuni anni fattisi nuovamente difficili per i cinesi, con la reggenza che assumeva principalmente Oboi durante la sua minore età. Circolò anche la voce che Shunzhi non morisse nel 1661, ma in quell’anno si ritirasse segretamente in un monastero per tacitare la dissidenza ormai troppo forte contro il suo trono. Descritto da taluni storici di carattere psicopatico o quanto meno debole e mistico, Shunzhi ci appare al contrario una figura sminuita prima da quella del padre, cui andavano tutte le nostalgie dei suoi detrattori mancesi e cinesi della Manciuria, poi da quella del figlio Kangxi, che da lui però molto ereditò per misure di governo e gestione politica fin dal suo “Sacro editto” del 1670 seguìto ai “Sei editti” (liuyu) promulgati da Shunzhi nel 1652.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
10 FEBBRAIO 2016
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