di Adolfo Tamburello*
Napoli, 11 nov.- Il lungo regno di Wanli (1572-1620) sprofondò il popolo in nera miseria da fine Cinquecento. Con la “guerra della Coria”, scriveva Matteo Ricci in quegli anni in Cina, “l’erario del Re si votò per le grandi spese di molti milioni di scuti, che cominciò il Re a ricercar modo di far denari per ritornar a empirlo”. Ma né il sovrano né alcun uomo del suo governo fu in grado di porre seriamente rimedio al dissesto finanziario creatosi coi 26 milioni di liang di spese vive. Da aggiungere gli otto milioni della sua tomba (il sontuoso Dingling), gli altrettanti per la ricostruzione dei palazzi imperiali, i 4-5 milioni annui per le corti di Pechino e Nanchino, infine gli ormai incalcolabili milioni dell’erario per le rendite della pletorica stirpe dei principi e loro discendenti coi nuovi investiti dallo stesso Wanli, un conto a carico diretto dei contribuenti delle province.
Wanli in persona o chi per lui degli eunuchi di stretto giro tentarono di rimpinguare il Tesoro con l’argento da trovare nelle miniere e un’ulteriore tassa sui commerci nelle province. Aggiungeva Ricci a carico di Wanli: “E quello che più danno fece al popolo fu che, per non si fidare degli mandarini in questi negocij, volse cavar queste miniere e riscuotere queste gabelle per mezzo de’ suoi eunuchi del palazzo […] Cominciorno questi eunuchi, che sono la maggior parte gente idiota, barbara, superba e senza conscienza e vergogna, a esseguir questi offitij con tanta crudeltà, che in brieve tempo si vide tutta la Cina rivolta et in assai peggior stato di quello che prima stava per la guerra della Coria”.
A prostrare le condizioni furono le stesse misure prese per migliorare le finanze: i licenziamenti del personale statale e la sospensione dei concorsi impiegatizi, fonti di altri brogli e con l’effetto di strarricchire chi aveva già troppo di suo e mettere sul lastrico migliaia di famiglie. Nelle città i primi a chiudere erano la miriade dei negozi e la disoccupazione del personale e degli addetti ai servizi. Da qui proteste e rivolte urbane e rurali e il fermo di molte industrie che avevano intanto incrementato l’inurbamento dalle campagne. In queste, a loro volta, a vaste carestie ed epidemie seguivano disastrose calamità naturali. Una delle più gravi fu nel 1609 un terremoto nel Gansu che provocò la distruzione di lunghi tratti della Grande Muraglia per circa 400 km, e i loro varchi esponevano le popolazioni ai confini a nuove incursioni di nomadi neppure contrastate dalle truppe di frontiera prive di effettivi e vettovagliamenti. Si capillarizzavano brigantaggio e banditismo, quest’ultimo sia con rapine nei centri urbani sia presso le residenze di campagna dei ceti abbienti. Ricchi proprietari terrieri erano succubi di sequestri, rapimenti, eccidi.
Non diverse dallo stato delle zone interne erano le aree marittime con le coste del Zhejiang e del Fujian tornate bersaglio della pirateria, mentre i porti del Guangdong e la stessa Macao erano preda delle aggressioni di nuovi europei sui mari dell’Estremo Oriente: era il turno ora di inglesi e olandesi.
A un secolo dall’impresa portoghese, la potenza iberica aveva ceduto il proprio primato. Prima di raggiungere l’Asia via mare, mercanti inglesi avevano istituito nel 1576 la “Company of Cathay; nel 1580 era nata la “Muscovy Company” per un commercio anglo-russo inteso a raggiungere il mercato cinese via “Moscovia. I russi di Ivan IV (il “Terribile”, 1547-1584), insignito del titolo di “Signore della Siberia”, attestavano la Moscovia sin sulle popolazioni siberiane e tatare, fondando città come Tobolsk nel 1587 e Tomsk nel 1604. Proprio da Tobolsk partiva nel 1618 la missione guidata da Ivan Petlin che raggiungeva Pechino per saggiare il terreno su possibili scambi con la Cina. Le autorità Ming divise nell’ostilità al nuovo arrivo di altri visitatori dall’interno dell’Asia rifiutavano l’udienza a corte col pretesto della mancanza del prescritto tributo, ma quello che rimaneva importante per i russi era il primo contatto.
Inglesi e olandesi giunti frattanto via mare stabilivano i primi rapporti col Giappone. Naufraghi di una nave olandese nel 1600 vi erano ben accolti e anticipavano l’installazione delle loro agenzie commerciali a Hirado, quella della Compagnia olandese delle Indie Orientali dal 1609 e quella inglese dal 1613. Con la Cina i rapporti erano da subito di ostilità. Dopo che una prima nave olandese era avvistata nel 1601 nelle acque del Guandong, i Ming ricevevano notizie di ricorrenti azioni di disturbo contro Macao e lungo le coste da parte dei nuovi “diavoli rossi” e fallivano due loro iniziative ufficiali di allacciare relazioni coi Ming nel 1604 e 1607. Intanto ingenti danni li subiva non solo la Cina e Macao, ma anche il Giappone, il Portogallo e il missionariato cattolico inserito nel traffico della seta: sia la “nao do trato” del 1603 sia quella del 1605 erano assaltate, depredate e date alle fiamme. La nave del 1603 fruttava un bottino la cui sola seta era di 2800 balle per un valore di 2 milioni di tael. Nel 1605 la nave dall’India sospese il viaggio a Macao avuta notizia che l’aspettavano dieci navi inglesi dinanzi al suo porto. Anche molti mercantili dal Sud-Est subivano un fermo con enormi perdite per il mercato e le dogane cinesi.
Eguale atteggiamento di rifiuto per olandesi e inglesi i Ming tenevano a una riapertura delle relazioni ufficiali col Giappone. Tokugawa Ieyasu, fondatore del nuovo shogunato Tokugawa (1603-1867), aggirava i mancati rifornimenti dalla Cina muovendosi con successo perché le Ryukyu passassero dalla sola sudditanza ai Ming anche a quella del Giappone con l’accordo che i ryukyuani non facessero parola del duplice stato di sudditanza cui sottostavano. Le navi delle Ryukyu avrebbero imbarcato giapponesi sotto falso nome e costoro durante i soggiorni in Cina avrebbero usato lingua, nomi e maniere delle Ryukyu. Nel secondo Ottocento il Giappone giocava la carta vincente di rivendicare le isole come proprio territorio metropolitano ormai storico.
Per un’ulteriore intensificazione dei traffici commerciali con la Cina il Giappone di Ieyasu tentava anche di impadronirsi di Taiwan con due spedizioni che inviava nel 1609 e nel 1616, ma che non guadagnavano terra. Con la Corea, concludeva nel 1609, mediatrici le autorità giapponesi dell’isola di Tsushima, un accordo commerciale con lo stato coreano, formalizzato nel 1617 col ripristino delle relazioni ufficiali a onta dei Ming.
Intanto, mentre la riacutizzazione della pirateria giapponese metteva a sacco nel 1609 il Zhejiang. Ieyasu, orientato a monopolizzare i traffici, faceva emanare nello stesso anno un primo veto ai “daimyo” costieri di armare per proprio conto navi di grosso tonnellaggio, nonché l’ordine di mettere in disarmo quelle esistenti. Era un provvedimento inteso a colpire principalmente i signori delle regioni sud-occidentali dell’arcipelago che continuavano a svolgere le proprie attività investendo capitali su giunche o equipaggi cinesi o armando navi che venivano iscritte sui registri Ming o, ancora, istituendo cointeressenze con europei. Ieyasu era deciso a sventare la destabilizzazione economica sofferta per l’innanzi dagli Ashikaga.
I Ming si sentivano gravemente lesi dal Giappone nel loro prestigio e di continuare a esserne alla mercè, ma il peggio doveva per loro ancora venire e non dal Giappone. La pressione dei jurchen tornava a crescere alle frontiere nord-orientali. Il loro capo Nurhaci (1559-1626), che si era già distinto durante la guerra di Corea dando un valido appoggio ai Ming, si volgeva ora contro di loro cominciando a irrompere oltre la Manciuria e la Mongolia nei territori cinesi. Nel 1619, nella battaglia di Nun Er Chu, l’armata Ming forte di circa 200 mila uomini ne lasciava sul campo oltre 100 mila e perdeva il 70% di armi e vettovaglie. Nel 1621 Nurhaci si insediava a Liaoyang che faceva capitale degli Hou Jin prima di muoverla nel 1625 a Shenyang (Mukden) anch’essa di nuova conquista.
Alle due corti di Pechino e Nanchino i fasti di palazzo facevano ancora sottovalutare l’imminente pericolo. Wanli, che forse era diventato succube dell’oppio, era stato anche profondamente colpito negli affetti da quando contro la sua volontà di eleggere principe ereditario Zhu Changxun, il suo terzogenito avuto dalla favorita Zheng aveva dovuto subire nel 1601 la designazione di Zhu Changluo, figlio avuto dalla propria consorte e che sarebbe salito al trono come Taichang. Nel 1615 la favorita Zheng fu coinvolta nel tentato assassinio del principe, ma riuscì a deviare i sospetti su due eunuchi che furono trucidati. All’episodio fu attribuito il successivo aggravamento delle condizioni d’equilibrio di Wanli e il suo ulteriore crescente distacco da ogni partecipazione politica.
Ai vertici del governo poco poteva frattanto l’opposizione della burocrazia contro lo strapotere mantenuto in permanenza dagli eunuchi, e rapida fine avevano i suoi migliori elementi dell’Accademia Donglin, ricostituita nel 1604 ma già proscritta nel 1610 e con la maggioranza dei membri che sarà massacrata fra il 1624 e il 1627 dall’eunuco Wei Zhongxian nel dopo Wanli.
Nella foto l'imperatore Wanli
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
11 NOVEMBRE 2015
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