di Adolfo Tamburello*
Napoli, 03 nov. - Se ne sono dette tante sulle “velleità” di Hideyoshi di conquistare la Cina che ancora non sappiamo con precisione se, una volta conquistata, volesse fissare la capitale del nuovo impero a Pechino o addirittura nell’odierna Vladivostok. Pensava a un approdo sul continente dal Nord?
In realtà non sapeva ancora bene neppure lui quali fossero con precisione i confini settentrionali del proprio paese; sapeva solo che al Nord erano insediati dei popoli bellicosi (erano gli Ainu), coi quali i suoi connazionali confinanti con loro mantenevano delicati equilibri. Comunque scartava di aggredire la Cina dal settentrione e preferì farlo dalla Corea, ma lì il suo sogno si fermò perché nel 1598 morì e le sue armate si ritirarono. Non possiamo immaginare che ne sarebbe stato se non moriva; alcuni tendono a giurare che la Cina sarebbe stata sua e non solo la Cina: sarebbe cominciata allora la “Sfera di co-prosperità dell’Asia orientale”, rimandata poi al Novecento…
Matteo Ricci, che era allora un testimone oculare alle porte di Nanchino scriveva: “ritrovorno là tutto pieno di paura. Perciochè la guerra de’ Giapponi con la Coria procedeva avanti con grandi spese dell’erario della Cina e puoca speranza di poter resistere all’impeto de’ Giapponi, i quali, se avessero saputo mandar gente in quel tempo alle parti della stessa Cina, non solo avrebbono fatto retirare un grande essercito de’ Cinesi che stava resistendogli nella Coria, ma anco avrebbono dato ben che fare alla Cina per difendersi”.
Entrando finalmente a Nanchino agli inizi di febbraio del 1599 aggiungeva: “Ritrovorno il tempo tutto mutato e pieno di allegrezza che vi era in tutta la Cina per la nova della morte del Cambacco [cioè Hodeyoshi], monarcha del Giappone, che aveva impaurito tutto questo regno con la guerra crudele che faceva nella Coria et ammenacciava voler passare alla Cina; e che l’esercito et armata de’ Giapponi era già partito dalla Coria ritornando per il Giappone, avendo l’armata della Cina fatta una gran strage di essi alla loro retirata”.
Alla metà del secolo scorso Pasquale D’Elia rettificava il passo ricciano: “La battaglia che condusse all’armistizio ebbe luogo il 2 novembre 1598; i Cinesi, date le loro gravi perdite, domandarono l’armistizio, il quale fu tanto più facilmente accordato in quanto che proprio in quei giorni giunse in Corea la notizia della morte di Hideyoshi. Allora cominciò il ritiro delle truppe giapponesi, non senza un attacco dei Cinesi e dei Coreani sulle navi che trasportavano i soldati giapponesi, quando ebbe luogo ‘la grande strage alla loro ritirata’, di cui si parlava tanto in Nanchino nel febbraio 1599. Questa ‘grande strage’ si sarebbe ridotta a prendere una barca giapponese e a fare 228 prigionieri”.
…
Molti europei allora in Giappone e a Macao rimasero rammaricati che i giapponesi si fossero ritirati dalla Corea e non avessero conquistato la Cina. Cadeva la speranza che avevano coltivato di potere entrare nel Celeste Impero al ianco dei giapponesi e predicarvi liberamente il Vangelo.
Precedendo di molti anni Hideyoshi in Giappone, anche i portoghesi del loro nuovo “Estado da India” avevano accarezzato dal primo Cinquecento qualche pensiero di estendere le conquiste alla Cina e naturalmente al Giappone. Anzi il Giappone, ove erano fortunosamente approdati fin dal 1543, aveva suscitato per primo tale brama, ed era stato lo spagnolo Francesco Saverio, il gesuita arrivatovi nel 1549, a sconsigliare Carlo V, come ci ricorda Ubaldo Iaccarino: “Riguardo a quelli che abborderanno il Giappone, avranno a che fare con un popolo così bellicoso e avido che verrà loro tutto confiscato, per impadronirsi delle armi e degli abiti metteranno a morte tutto l’equipaggio”.
Per la conquista della Cina il pensiero sembrava prendere corpo quando i portoghesi acquisivano dal 1557 Macao e fino al 1575 quando la città era eletta diocesi suffraganea di Goa con giurisdizione appunto “su tutti i territori della Cina e del Giappone soggetti alla conquista del Re del Portogallo”, come formulava il breve di Gregorio XIII di quell’anno. Ma proprio nel 1575 un sultano dell’India meridionale strappava ai portoghesi Ternate, il centro più vitale delle “Isole delle Spezie”, e il Portogallo cominciava a perdere colpi nei suoi possedimenti in Asia, finché ogni sogno di conquiste svaniva nel 1582 quando i macaensi apprendevano che la loro madrepatria era stata addirittura annessa alla Spagna sotto il re di Castiglia Filippo II. Poco dopo, però, qualche idea rifaceva capolino in molti portoghesi che quelle conquiste potessero ora farsi in combutta con gli spagnoli affacciatisi in Cina e Giappone dalle Filippine ormai spagnole.
Meno male che Filippo II aveva troppi pensieri per la testa con le dimensioni già acquisite dal suo impero per aprire altri fronti di guerra. Bastavano le ostilità che aveva e che nel 1588 gli affondavano addirittura l’“Invincibile Armata”. Ma non per questo gli iberici in Giappone recedevano dai loro sogni di gloria, e che fossero lì per lì per realizzarli lo propalavano a gran voce, mettendo fra l’altro in forte disagio i missionari di buon senso delazionati tra l’altro di essere i battistrada dei loro corpi combattenti. Purtroppo gli stessi missionari non erano tutti di buon senso.
Specialmente quelli destinati alla Cina lo venivano proponendo e perfino qualche gesuita visto che il Celeste Impero si rifiutava d’accoglierli. Questo, almeno fino al 1583 quando il Visitatore italiano delle Indie Alessandro Valignano trovava un modo congruo per farvi entrare Michele Ruggieri e Francesco Pasio seguiti da Matteo Ricci e poi altri, ma siccome anche dopo che i gesuiti italiani vi avevano messo piede, restavano tante le difficoltà per portoghesi e spagnoli di esservi ospitati (e maggiori per chi non vestiva un abito religioso), le aspettative di una conquista armata della Cina restavano ansiose, ed era anche per sbloccare questa situazione che ancora Valignano studiava una pacifica ambasceria pontificia e iberica per organizzare la quale inviava in Europa Michele Ruggieri. L’ambasceria non aveva luogo, e negli anni successivi interveniva la ricordata disfatta dell’Invincibile Armata.
A quel punto solo il Giappone poteva apparire d’avere le carte in regola per una conquista, e gli iberici delle Filippine o del Messico e del Perù avrebbero potuto dargli una mano con le proprie navi. Non si sa perché ciò non avvenne, forse perché più o meno in contemporanea Hideyoshi aveva chiesto al governatore delle Filippine di dichiararsi suo vassallo pena l’occupazione armata di quelle isole.
Hideyoshi. generalissimo non shogun, ma uomo d’armi nel sangue che ambiva a ben oltre la sottomissione a lui del solo proprio paese, come tutti i giapponesi che vedevano fuori dal chiuso delle loro isole, era stato molto contrariato che le Filippine erano divenute spagnole. Almeno dal primo Cinquecento erano corse idee fra i giapponesi di conquistarsele loro, ma se ne erano fatte solo sporadiche basi di pirateria, prima che gli spagnoli li precedessero e le occupassero..
Comunque Hideyoshi intendeva prendersele, così come pensava di incamerare le Ryukyu e Taiwan, le prime perché svolgevano da secoli un’utile mediazione con la Cina per cospicui lucri commerciali e rappresentavano agli occhi giapponesi un’appendice del proprio arcipelago che forniva approdi e appoggi alle navigazioni; Taiwan, perché era già un tradizionale mercato giapponese da cui affluivano ingenti quantitativi di pelli e corna di cervi unitamente alle merci cinesi portatevi dai mercanti della Cina meridionale. Una stabile annessione della grande isola avrebbe aggiunto ai proventi del commercio, una posizione strategica in grado di esercitare uno stretto controllo anche sulla pirateria, oltre che di usufruire di una base antistante la Cina fra Macao e l’arcipelago per sostenere nel peggiore dei casi la concorrenza dei commerci europei. Da secoli le marinerie nipponiche avevano avuto una continuativa espansione, e l’apparizione dei navigatori iberici aveva impresso ulteriori sviluppi con le nuove cognizioni nautiche acquisite da loro. Hideyoshi intendeva allargare e intensificare la presenza giapponese sui mari, nazionalizzando le flotte e contrastando efficacemente le imprese piratesche dei suoi stessi “daimyo del mare”. Costoro avevano avuto l’effetto di far chiudere i porti cinesi e coreani alle navi giapponesi. Riprendendo il vecchio sistema delle navi su licenza, autorizzava una serie di viaggi alla volta della Cina, della Corea e dei porti del Sud-Est Asiatico, in alcuni dei quali erano già fiorenti i Nihon-machi, i “quartieri” o le “città giapponesi”.
Per la Cina e la Corea la condizione era che entrambi gli stati aderissero a riprendere i rapporti ufficiali col Giappone, ma le richieste incontravano un rifiuto che persuadeva lo statista a prendere le armi contro i Ming.
Il momento storico era in effetti tale da far misurare la posizione di dipendenza ed emarginazione in cui il Giappone si sarebbe trovato una volta che la potenza iberica avesse assunto dalle Filippine il predominio marittimo e territoriale nell’Asia orientale. Fra l’altro, già dal 1586 portoghesi e spagnoli valutavano l’opportunità di costituire una base prossima alle coste cinesi proprio a Taiwan.
Prevenendo un possibile volgere degli eventi nel senso temuto, Hideyoshi armava, nel 1592 e 1597, due spedizioni contro la Corea e la Cina, mentre chiedeva appunto lo stato di vassallaggio delle “Indie spagnole”. Non aveva fortuna né sull’uno né sull’altro fronte. Il viceré spagnolo lo ignorava; in Corea, le armate giapponesi si scontravano con alterne fortune contro forze non solo coreane, ma cinesi intervenute in soccorso della dinastia Yi. Alla morte dello statista, sopraggiunta nel 1598, le truppe giapponesi evacuavano la penisola. Le operazioni passavano alla storia in Giappone come le “guerre dei vasi” sia per la loro inconcludenza e sia per il bottino che i Giapponesi facevano di ceramiche ed altre opere d’arte, deportando anche ceramisti ed esperti.
Con la fine del Cinquecento si dissolvevano dunque i sogni di conquista della Cina; ne rimaneva in piedi uno solo se già coltivato: quello di Nurhaci, il capo che riunificava i jurchen e si avventava ai primi del Seicento sulla Cina, ma siamo nel secolo succesivo.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
03 NOVEMBRE 2015
@Riproduzione riservata