di Adolfo Tamburello*
Napoli, 11 set.- Si vuole che la Cina non conoscesse mai più un’epoca di tanto diffuso splendore culturale e artistico, di tanto ingegno professionale utilmente speso, di prosperità e prestigio internazionale quanto sotto il regno di Yongle (1403-1424). Le premesse erano state date tutte da Hongwu, il fondatore dei Ming (r. 1368-1398) e neppure messe in gioco dai sanguinosi eventi seguiti alla sua successione. L’avvio era stato tale che quanto succedeva a Nanchino, con la distruzione del suo palazzo imperiale e la città a ferro e fuoco, poco toccava il resto del paese. Cantieri, arsenali, fabbriche, empori ignoravano le lotte di potere di cui la lontananza dei sudditi riceveva l’eco delle preoccupazioni dei magnati. I grandi lavori urbani non erano limitati alle due capitali: si estendevano a centinaia di città vecchie e nuove dell’interno e dei litorali, mentre la cantieristica navale intensificava il rilancio della Cina sui mari.
La flotta da guerra si componeva agli inizi del secolo di circa 3.500 unità, di cui 800 per navigazioni fluviali, su canali e laghi: 400 di stanza a difesa della capitale e l’altra metà adibita a trasporti di uomini e merci, vettovagliamenti e armi; ben 2.700 adibite alle perlustrazioni costiere per la lotta alla pirateria, al contrabbando e alle emigrazioni clandestine fra cui il mercato di schiavi.
Sotto l’ombrello della potenza navale cinese dalla stessa pirateria connazionale e per la convenienza dei traffici si poneva anche l’ombroso Giappone con lo shogun Ashikaga Yoshimitsu che aderiva dal 1404 alla tributarieta ai Ming. fiero di esserne il “re” vassallo. In cambio delle monete cinesi, di libri, opere d’arte e di fine artigianato, che continuavano a crescere il Giappone come un paese per eccellenza faro di cultura anche cinese, i Ming ricevevano argento e altri preziosi metalli perfino nelle sue ormai molto ricercate armi bianche. La sospensione dei rapporti ufficiali voluta nel 1411 dal successivo shogun Yoshimochi non valeva a fermare i traffici.
Non era il solo Giappone il grande fornitore della Cina Ming: lo erano paesi come il Vietnam, ridotto, durante il regno di Yongle a provincia cinese col vecchio nome di Jiaozhi, lo erano paesi come Champa, Cambogia, Siam, Giava, Brunei, Malacca, Sumatra. Le navi cinesi arrivavano su rotte regolari fino a Cochin nell’India sud-occidentale.
Gli inviati di Yongle, burocrati e fidati eunuchi come Wen Liangfu, Ma Bin, Yang Qing, elargivano doni ai vari “re” tessendo sottili relazioni di debiti d’ospitalità ricevuta e da ricambiare: ben quarantotto missioni in ventidue anni. Non erano intavolate richieste di cessioni di terre, sedi diplomatiche o tanto meno di extraterritorialità per propri connazionali: le sovranità interne dei vari stati erano garantite sacre e inviolabili, anzi tutelate e all’occasione difese. Yongle faceva di tutto perché gli stessi propri sudditi, cinesi e non, stessero lontani da loro. Solo gli scambi ufficiali erano permessi e combattuta la pirateria di ogni bandiera, quella degli haikou di casa propria e quella “giapponese” dei wokou: d’altra parte, gli inviati chiudevano un occhio sulle risapute collusioni con haikou e wokou dei regnanti del Sud-Est Asiatico e loro sudditi.
Lo scacchiere politico internazionale del momento era molto favorevole a Yongle, e specialmente Yang Qing, fu molto abile nell’individuare, in ordine d’importanza, le situazioni diplomaticamente più impellenti e propizie. Il regno di Malacca, chiave di volta per l’India con le sue portualità, era minacciato dai temibili vicini, da un lato il Siam dall’altro Giava, ed era sollecito a chiedere protezione divenendo praticamente anch’esso una provincia cinese. Il sultano del Brunei si recò di persona alla corte Ming e, morendovi, fu onorato da solenni esequie di stato.
Molto giovava alla Cina l’assenza di motivazioni religiose in queste missioni. Eventuali monaci appresso non erano in funzione di missionari e nulla importava che quei re e popoli fossero induisti, buddhisti o musulmani come lo erano ormai molti fino a Samudra, nel Nord di Sumatra. Anzi, le alleanze con l’Islam dei paesi marittimi poteva tornare utile a una politica d’intesa col mondo musulmano timuride del continente a ridosso della Cina e a cui Yongle rimaneva molto legato.
Nei disegni del sovrano Ming, immutati da quelli del fondatore, gli scambi commerciali con l’estero dovevano restare il più possibile sotto un regime di monopolio statale e le merci importate sottostare alla prelazione della Corona e della sua corte a propri usi esclusivi o per immetterle in un mercato privilegiato o in quello nazionale all’ingrosso e al minuto. A loro volta, i doni che ricambiavano i tributi, attingevano comprensibilmente di preferenza alle produzioni dei laboratori e opifici imperiali, naturalmente a scapito di quelle dell’imprenditoria privata destinate al mercato interno. Non deve oggi meravigliare che in gran parte dell’Asia, ma anche in Africa e persino in Europa, siano testimoniati attraverso l’archeologia o le collezioni museali tanti prodotti (specialmente ceramici) provvisti di marchi ufficiali e in particolare di Yongle. È forse superfluo, a sua volta, dire che molti oggetti preziosi o rari che i Ming ricevevano, per esempio, dalla Malesia o dall’Indonesia finivano (oggi si direbbe “riciclati”) fra i doni destinati a maggiorenti, per esempio, della Mongolia, della Manciuria o della Corea dove sono stati trovati. Per i Ming era una questione più che di generosità di prestigio fare sfoggio di quanto ricevevano.
L’immissione nel Tesoro di massicci quantitativi di metalli preziosi e la loro circolazione nelle transazioni commerciali aveva alla lunga, ma già sotto il regno di Yongle, gravi effetti inflazionistici sulla cartamoneta di nuova emissione, effetti accresciuti con la preferenza data dalla stesso governo al versamento degli oneri fiscali in verghe d’argento e il concomitante deprezzamento della moneta metallica in rame sull’argento e l’oro.
Il disagio economico si profilava anche con la generosità imperiale negli investimenti senza ritorni d’immediato profitto o in funzione del prestigio di cui dovevano godere le corti principesche, quelle dei sopravvissuti eredi di Hongwu e le nuove di Yongle. Privati molti di cariche militari ma non di funzioni politiche, i principi facevano da longa manus fra la corte imperiale e le lande dove poco o meno arrivava la burocrazia e i maggiorenti ricostituivano i grandi patrimoni terrieri. Termometri di quelle aree, i principi erano tenuti a svolgere compiti fiduciari e di promozione delle condizioni di vita delle popolazioni rurali, comprese quelle non cinesi in assimilazione. Erano aperte persino scuole e circoli di cultura e d’arte, insieme con aziende, miniere, laboratori.
Ai vertici dello stato la corruzione serpeggiava a dispetto delle purghe frequenti, numerose e cruente. La catena di trasmissione del Grande Segretariato con la burocrazia dei Sei Ministeri passava progressivamente alle dipendenze del neige, la mutevole e cangiante “Corte interna”, presieduta formalmente dal sovrano e nelle mani degli alti fiduciari del momento fra cui in crescita numerica gli eunuchi del palazzo. Costoro finivano col detenere il controllo anche della polizia segreta del dongchang, la “cintura orientale” seguita ai corpi di guardia delle “uniformi di broccato” (jinyiwei) istituiti da Hongwu e a gradi prevaricante persino gli organi di controllo del censorato (yushitai).
Gli immani lavori pubblici messi in campo ai Grandi Canali e all’edificazione dei nuovi centri abitativi alteravano negli anni la struttura sociale voluta da Hongwu. Molto contadinato era sottratto alla terra per le corvè e improvvisava una manovalanza da cui uscivano negli anni nuove categorie specializzate di arti e mestieri. Lo stesso dicasi per le molte famiglie di militari che si insediavano nei nuovi territori e crescevano come comunità più o meno autosufficienti e in gran parte demilitarizzate nei loro membri.
Persino i nuovi accessi per esami alla burocrazia nei suoi vari livelli aveva profondi riflessi sulla mobilità sociale raccogliendo elementi idonei fin dagli strati più popolari e da sperduti villaggi. Ricerca e valorizzazione di giovani talenti erano favoriti dall’illuminata magnanimità di maggiorenti locali e di pari passo dalle realizzazioni editoriali dell’accademia Hanlin con le sillogi ufficiali del 1415 dei filosofi Song (Xingli daquan), dei Cinque Classici (Wujing daquan) e dei Quattro Libri (Sishu daquan): tesori che riconsegnavano in fruibilità a un vasto pubblico una gran parte del patrimonio letterario cinese.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
11 settembre 2015
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