di Adolfo Tamburello*
Napoli, 11 ago.- Zhu Yuanzhang (Hongwu) morì il 24 giugno del 1398 quasi settantenne, e una quarantina di concubine che lo accudivano furono sepolte con lui assieme ai suoi medici curanti. A parte loro, dovettero trarre tutti a corte un respiro di sollievo. Erano stati anni di regime duro i trenta passati da quando era salito al trono dei Ming nel 1368 a Nanchino. Di questa aveva fatto la sua capitale fissa e l’aveva trasformata in una grande metropoli; nei suoi paraggi vi aveva eretto il mausoleo che vi rimane ancora.
Le condizioni di vita di chi gli stava vicino si erano fatte sempre più difficili man mano che invecchiava. Sospettoso all’eccesso, si era guardato fin troppo bene da chi aveva temuto gli ordisse tradimenti e congiure. Già negli anni Ottanta aveva mandato a morte il suo fedele Primo Ministro e con lui circa 30 mila fra burocrati civili e militari che a suo dire gli stavano tramando un complotto per destituirlo. Non ce ne meraviglieremmo, ma il Cielo non gli tolse il mandato...
La sua vita era stata cosparsa di delitti da quando come capo ribelle era salito inarrestabile ai vertici di un potere sempre più alto lasciando file di morti alle sue spalle fra commilitoni, vecchi amici e seguaci. Amò la moglie, e dopo la morte di lei non andò più a nozze.
Di fattezze non gradevoli, si tramanda non lesinasse la morte persino ai pittori che lo ritraevano con verosimiglianza. Detestava soprattutto gli eunuchi, ma non faceva a meno di servirsene per il suo gineceo e si guardava bene dal seguire l’esempio del Giappone che li sostituiva con efficienti donne guardiane. Li diminuiva sì drasticamente di numero e li voleva ignoranti, il più possibile “analfabeti”, perché non si occupassero di amministrazione e non intrigassero. Era però tutt’altro che avverso all’istituzione dell’eunucato, anzi assicurava fin troppi eunuchi alle generazioni future con tutti i giovani prigionieri e deportati stranieri, prevalentemente musulmani cui salvava la vita. Non ce l’aveva in particolare coi seguaci di Maometto, ne seguiva il costume loro familiare, che preferivano a quello dell’abbandono dei neonati o dell’infanticidio.
In fatto di religioni Honwu era molto tiepido, era riconoscente che in prima gioventù un convento buddhista gli avesse dato i rudimenti del leggere e scrivere e aveva una sicura fede nell’alta predestinazione avuta al “mandato del Cielo”. In quanto al confucianesimo di cui si era fatto un’infarinatura a sentire tanti intellettuali che gli erano corsi intorno, apprezzava certo le teorie del merito e del demerito, con la prima che lo induceva a ripristinare dal 1384 il sistema degli esami concorsuali per i funzionari di Stato e la seconda, la teoria della colpa, che lo faceva accanire con generose bastonature a chi ai suoi occhi sbagliava. Per il resto era un legalista a oltranza ed esigeva che il suo codice fosse scritto a lettere chiare e senza i “busillis” dei legulei.
Non tollerava critiche al suo operato e mandava immancabilmente a morte chi lo contraddiceva. Per inconsulta magnanimità ne risparmiò uno, il quale non si era fatto illusioni presentandosi a lui con la propria cassa da morto.
Coma monarca fu veramente tale. Lasciò in organico i tradizionali Sei Dicasteri coi loro ministri, ma come puri e semplici esecutori, mentre si avvaleva di una segreteria fatta di colti letterati che gli mettevano per iscritto correttamente quando veniva dettando. Uomo non di sapere e dotato di una cultura raccogliticcia, proveniva dagli strati più poveri e bassi del mondo rurale. Orfano di padre quattordicenne, aveva fatto il vaccaro finché non aveva perso tutta la famiglia in un’alluvione ed era stato accolto come novizio in un monastero poi taglieggiato e soppresso dai mongoli. Finito per un po’ come vagabondo mendicante, si unì ai rivoltosi del Loto Bianco e poi dei Turbanti Rossi e compì i primi passi di una fulminea carriera per doti di comando, strategia e spirito d’organizzazione. Il seguito che ebbe gli scongiurò la via del brigante per quello di magnetico capo di folle e all’ultimo di sovrano.
Deciso anti-Yuan, non si accontentò, a differenza di quanto sembrava di altri rivoltosi, di ritagliarsi al Sud o al centro della Cina un potere indipendente ed eventualmente coesistente con quello degli Yuan al Nord, ma condusse una lotta senza quartiere ai Mongoli imprimendo alla propria azione il carattere di una lotta di liberazione “nazionale” del paese.
“Militarmente potente”, come più o meno dice il suo nome di regno di Hongwu, si salvaguardò dai colpi di mano delle guarnigioni militari, che avevano ripetutamente messo a rischio i poteri centrali del governo nel corso delle passate dinastie, smobilitandole al rientro dalle campagne militari e risparmiando i costi di un loro mantenimento parassitario. Nella generalizzata ereditarietà dei mestieri, i militari di professione erano tali con molti limiti, una volta inteso che, deposte le armi, dovessero provvedere a se stessi e alle loro famiglie con occupazioni alternative da coloni o comunque per lo più da rurali.
Memore del suo passato, non derubò ma favorì i poveri. Dette loro terre da coltivare, fece addestrare giovani ai lavori, liberò gli schiavi, promosse lo stato di servi a quello di uomini e fece di tutto perché anche i poveri potessero mangiare. Fu un anticipatore delle “comuni popolari” favorendo le comunità rurali in unità autosufficienti e produttive per generi di consumo e smerci di beni.
Sul piano della politica economica, dati per scontati settori primari quali quelli di caccia, pesca e raccolta e ribadito quello dell’agricoltura e dei suoi lavorati, non fu affatto un chiuso “confuciano” anticommercialista come spesso dipinto, ma un pragmatico mercantilista per il quale i redditi commerciali soprattutto dall’estero dovevano affluire solo all’erario, identificato comprensibilmente all’epoca nel Tesoro della “corona”. Le merci di scambio, cioè quelle destinate all’export, dovevano consistere elettivamente nei manufatti delle manifatture e officine imperiali la cui manodopera era identificata in un inalienabile servizio pubblico.
Per i laboratori di Stato promosse un’agricoltura industriale con un colossale incremento delle piantagioni di cotone, canapa, tè e piante arboree (alberi di gelso per la seta, rhus vernicifera per la lacca e altri fusti di varie specie per legnami da lavoro e combustibile) nel programma di una rinnovata espansione produttiva per il consumo interno ed estero. Anche la carpenteria navale ebbe subito forte ripresa a compensazione delle perdite avutesi con le distruzioni delle flotte durante le guerre civili e le rivolte antimongole.
La rifioritura dei traffici marittimi fu celere sia per i collegamenti costieri fra le varie portualità cinesi sia per i rapporti con l’estero. Nessuna esitazione all’invio per terra e per mare di suoi ambasciatori ad annunciare ai governanti dei vari paesi l’instaurazione della sua nuova dinastia. Dal 1372 erano riaperti i tre porti di Guangzhou, Fuzhou e Mingzhou (Ningpo), il primo per le ambascerie dei paesi del Sud-Est Asiatico, il secondo dalle Liu-chu (giapp. Ryukyu) e il terzo delle ambascerie giapponesi. Queste ultime erano quelle su cui più confidava per le sistematiche importazioni di metalli in armi bianche, rame, argento e oro.
Al numerario metallico per la monetazione aggiunse la carta moneta che riprese a emettere dal 1374 a onta della grave inflazione avuta dagli Yuan. La moneta cartacea era stata una grande innovazione cinese e non poteva andare obsoleta. Tutto ciò che la Cina aveva creato doveva permanere. Nasceva con lui la Cina “neoclassica” dei Ming.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
11 agosto 2015
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