di Adolfo Tamburello*
Napoli, 28 mag.- Ad altre vette del pensiero che non a quelle religiose riconduce la Cina d’ogni tempo, ma si parla della Cina laica, intellettuale, filosofica, non del suo popolo che come ogni altro fu sempre religiosissimo, credente in miracoli e prodigi, praticante esorcismi e magie, sacrifici e oracoli, voti. L’animismo di fondo, la divinizzazione della natura dai monti alle acque, al mondo animale decorreva col suo tribalismo alla concettualizzazione dell’umano in termini divini di demiurgi, capi storici, eroi e più in generale predecessori e antenati. Alle prime formazioni politiche, Cielo e Terra, il primo come sfera divina eminente sul piano del Suolo, ispirava primi culti e rituali di stato, accuditi da un sacerdozio più secolare che ecclesiastico, con cui la religiosità laica dell’etica confuciana finiva con l’incontrarsi. Sì, dunque, un’Entità dell’Alto, uno Shangdi, ma non un Dio assoluto, onnipotente e creatore.
Conferme di remissioni e culti in un Cielo Eterno venivano all’incontro storico ricorrente coi nomadi e seminomadi delle tundre e delle steppe e culminavano al XIII secolo coi Mongoli gengiscanidi. Apparivano del tutto secondarie, pur sempre sostanzialmente comuni, le più svariate credenze nelle diverse personificazioni che il divino o il demoniaco assumevano sia presso di loro che fra i cinesi nel mondo dell’invisibile terrestre o del sottosuolo e degli inferi.
Gli altari del Cielo e della Terra univano i diversi popoli nei cerimoniali di Stato e nei riti stagionali o annui. Poco contavano le intime credenze o attese e speranze dei singoli, a meno che non minassero gli ordini costituiti al momento.
Che poi i Mongoli, molto più dei Cinesi, fossero un popolo tollerante in fatto di religioni è un dato storico, ed è da escludere che lo fossero per indifferentismo religioso. Ma non avevano l’esperienza di secoli dei Cinesi del potere temporale ecclesiastico e delle erosioni che questo portava sottilmente all’ordine politico con le “società segrete” istigate da chiese, per esempio, buddhiste e manichee.
Originariamente divisi anche loro in credenze e culti sciamanici su piani tribali, a contatto delle religioni che incrociavano nel corso delle transumanze e conquiste venivano aderendo alle fedi più varie, dal manicheismo allo zoroastrismo, al buddhismo, all’Islam, al cristianesimo nestoriano e cattolico. Irresistibile e facile presa esercitavano culti miracolistici e magici, come era il caso del buddhismo tibetano col suo fondo comune sciamanico ereditato dal bon-po.
Il mondo cinese esercitava indubbiamente il suo fascino persino con la laicità confuciana dagli aspetti religiosi dei suoi princìpi etici, ma la distanza fra la norma e la pratica faceva tenere viva la guardia verso una fede che, all’occasionale riscontro, appariva tutt’altro che ardente o solo vissuta come mera letteratura in funzione di strumento politico personale o elitario. Fu dal 1313 che il “neoconfucianesimo” di Zhu Xi era dichiarato ortodosso ed era tradotta in mongolo una prima opera del grande filosofo Song. Dal 1314 era ripreso il sistema degli esami concorsuali per l’accesso alle cariche pubbliche, ma era un riconoscimento cutaneo dei valori del confucianesimo come lo era stato persino saggiamente da parte di Kubikai Khan.
A livelli non solo popolari grande attrazione era sentita per il taoismo e il buddhismo. L’immortalità o la longevità, le “reincarnazioni” (o le “ricorporalizzazioni dello spirito”, come sarebbe forse più esatto dire), le attese in mondi migliori fino al millenarismo facevano presa su molti. Gensig Khan, da essere predestinato quale si sentiva, confidava nella taumaturgia taoista; Kubilai, sembra, fosse un taoista intimamente convinto, ma da “sovrano universale” del buddhismo quale era considerato, ne sosteneva templi e monasteri fino a farli contare in numero di 42 mila con 213 mila fra monaci e monache. Altri sovrani professarono tutte le loro simpatie per il buddhismo Chan, il più rinomato Zen dei giorni nostri in versione nipponica.
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La tentazione dei sovrani mongoli di servirsi delle chiese fece cadere anche loro nella rete dei poteri ecclesiastici che andarono via via potenziandosi con le immunità fiscali, concessioni di suoli e terreni, sovvenzioni economiche e vitalizi elargiti alle istituzioni religiose in genere e alle figure dei religiosi più carismatici. Dopo la conquista del Tibet, prevalse il sostegno del lamaismo su pressione del locale Consiglio di Stato per gli affari buddhisti costituito dallo Xuanzheng yuan che legiferò fino a Pechino, e molti sovrani finirono col mettersi nelle mani di lama delinquenti restati famosi per i loro depredamenti e delitti. Uno arrivò addirittura a profanare le tombe degli imperatori dei Song meridionali per impadronirsi dei tesori devoluti alla loro memoria dalla pietas dei sudditi. Furono molti i monaci buddhisti cinesi che espatriarono e alcuni raggiunsero perfino il Giappone.
Il cristianesimo nestoriano e quello greco-ortodosso, professato quest’ultimo da russi emigrati, sembra subissero colpi da quello cattolico con le conversioni ottenute dai nostri francescani. In oltre duecento furono mandati all’epoca in Oriente per vincere quelle “eresie” di secoli, e parve che il cattolicesimo potesse farcela almeno in Cina.
Andarono invece totalmente perse in Cina le speranze di avere una solidarietà mongola contro l’Islam. Musulmani erano dappertutto allora. Città e villaggi si costellavano di moschee e minareti, comunità musulmane crescevano nel Nord come nel Sud e specialmente nel Gansu e nello Yunnan. Quest’ultima provincia riceveva nel 1274 come governatore Sayyid Ajall, un musulmano di Bukhara. Non che l’Islam come del resto il cristianesimo o altre religioni esercitassero particolari richiami di fede sui mongoli altolocati e tanto meno sui cinesi: gli stranieri, che fossero ebrei, musulmani o cristiani, manichei o zoroastrani erano apprezzati per quello che erano, soprattutto come mercanti esattori o fiduciari a qualunque titolo e di più come uomini di scienza e di cultura, come letterati, artisti e architetti, come viaggiatori di grande esperienza, carovanieri e navigatori. I cinesi propendevano in maggioranza a non simpatizzare con gli stranieri e le loro fedi: le classi alte rimanevano confuciane, taoiste e buddhiste, il popolo credente in quel sincretismo ormai solido taoista-buddhista, con masse affiliate ai culti eversivi tributati al Buddha Amitabha del Loto Bianco (bailiian) o della Nube Bianca (baiyun) o a quelli millenaristici credenti nel messia Maitreya.
28 maggio 2015
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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