di Adolfo Tamburello*
Napoli 27 gen. - Il periodo delle “Cinque Dinastie” e dei “Dieci Regni”, fatto iniziare dalla caduta dei Tang nel 907, si concludeva, secondo la storiografia cinese, nel 959, quando un generale dei Zhou Posteriori, Zhao Kuangyin, (Taizu, 960-976), con un colpo di stato edulcorato dal pronunciamento delle armate al suo comando che lo proclamavano imperatore, fondava a Kaifeng una nuova dinastia, quella dei Song (960-1279), alla quale era trasferita la legittimazione dinastica, giusta implicitamente l’epitome storica di Sima Guang (1019-1086), il Zishi tongjian (lo “Specchio generale al servizio del governo”) che ridava una lettura ufficiale della storia cinese dal 403 a.C. al 959 d.C., appunto.
Una delle “Cinque Dinastie”, quella dei Liao, cioè l’impero kitan (cin. qidan), fondato nel 907 e rimasto in vita fino al 1125, finì col passare agli occhi degli storici cinesi come uno dei tanti “regni “barbarici” permanenti alle frontiere, benché il suo territorio fosse bene addentro la Cina ed estendesse la sua alta sovranità fin sulla Corea. Ancora nel 1004 l’espansione toccava il corso inferiore del Fiume Giallo e costringeva i Song, insediati dal 960 a Kaifeng e già battuti dai kitan nel 979, 980 e 986, all’umiliante trattato di pace di Shanyuan, con il quale subivano l’imposizione tributaria annua di 100 mila verghe d’argento e 200 mila rotoli di seta, appesantita nel 1044 a 200 mila verghe d’argento e 300 mila rotoli di seta. I Song tuttavia non passavano al rango di vassalli dei Liao: la magnanimità di costoro arrivava al punto di riconoscere una “diarchia” di huangdi.
Allestita nel 1048 una flotta da guerra per il trasporto al Sud di cavalli e truppe, i kitan stabilivano rapporti con le Ryukyu e il Giappone.
Aperti a scambi commerciali a Occidente fin con l’impero abbaside e la sua corte di Baghdad, i kitan contribuivano a mantenere viva una corrente di traffici lungo le storiche vie della Seta, cui partecipavano attivamente gli altri “popoli delle steppe” impegnati nella mediazione di merci cinesi per l’Occidente e prodotti del Vicino e Medio Oriente specialmente per Cina e Corea. Capitali mercantili impinguavano le casse dei kitan anche con le esportazioni di cavalli dei loro estesi allevamenti: nel 979 gli stessi Song ne acquistavano ben 170 mila a vano rinforzo delle loro cavallerie sconfitte dai Kitan quell’anno e successivi fino alla citata pace del 1004.
Riforniti dal mercato cinese di derrate d’ogni genere, dai cereali, alcolici, tè a merci di lusso come mobilio, vestiario, calzature e libri, i sudditi dei Liao, specie quelli residenti nei centri urbani e i molti discendenti di turco-mongoli, mancesi, coreani, acceleravano l’adozione di usi e costumi cinesi. A corte il cinese diventava lingua e scrittura ufficiale: in cinese erano redatti documenti, registri e libri, fonti dei successivi Qidan Guozhi (Documenti del paese dei kitan, 1247) e Shi Liao (“Liao storici”, sec. XIV).
La lingua kitai, oggi estinta, classificata all’interno di un pre- o proto-mongolo, pur dotata di una scrittura adattata dal cinese fin dal secolo X su iniziativa di Abaki (cin. Abaoji), il fondatore della potenza Liao, è ancora solo in parte decifrata. Un suo monumento è il cosiddetto “Memoriale di Yelu Yanning”, del 986.
Il processo di sinizzazione, accelerato dall’elemento cinese nella burocrazia e dalla convivenza e unioni coi cinesi, che in alcune regioni erano addirittura la popolazione dominante, produceva nel corso del lungo dominio una piena sinicità che finiva con l’estraniare definitivamente la corte Liao e gli stessi “kitan” sedentarizzati dal superstite tribalismo mongolo e mancese, nomade e seminomade. Vi contribuiva il buddhismo come dottrina di pace e vita religiosa. Nel 1078 erano contati oltre 360 mila monaci e monache su una popolazione calcolata in circa 4 milioni. Maestranze e architetti al servizio dei monasteri contribuivano al trapianto in territori cinesi della pagoda centroasiatica su pianta poligonale, mentre nelle arti plastiche e pittoriche accentuavano il figurativismo tantrico.
La componente religiosa sciamanica permaneva nelle etnie pastorali e di grandi allevatori. Queste finivano col federarsi coi jurchen (cin. nuzhen), una popolazione d’origine tungusa che trovava nel 1115 in Aguda un capo militare che l’organizzava in una forte compagine e fondava un proprio impero cui dava il nome di Jin (l’“Aureo”).
Nel 1123 le forze jin sfidavano sul campo quelle dei Liao, i quali, combattuti contemporaneamente anche dal fronte cinese, cadevano nel 1125.
I Liao superstiti riparavano nel Turkestan, ove formavano il regno dei Kara Kitai (“Kitan neri”, 1125-1201).
Tanta rimaneva però in Asia e nella stessa Cina la fama dei Kitan, che ancora Marco Polo chiamò Catai la Cina settentrionale. Dopo che dai primi del Cinquecento la Cina meridionale fu avvicinata per via di mare dai primi europei, rimase a lungo incerto ove doversi localizzare l’enigmatico Catai poliano, che fu identificato persino col Tibet. Si dovette aspettare il primo Seicento perché l’Europa appurasse che il suo cuore fosse proprio la Cina settentrionale e precisamente la “Khanbalik” di Pechino. Lo scriveva per primo a Roma il gesuita Matteo Ricci (1552-1610).
Il nome di Kitai, dato ufficialmente alla Cina, sopravvive ancora oggi in alcune lingue slave.
27 gennaio 2015
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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