di Adolfo Tamburello*
Napoli, 8 gen.- All’epoca Tang (618-907) le relazioni della Cina col Giappone avevano alle spalle centinaia d’anni, e l’arcipelago era ancora conosciuto ai cinesi come Woguo (il “Paese” o i “Paesi dei nani”). Nel 607 un’ambasceria di Wo si era presentata al secondo imperatore Sui, Yangdi (r. 604-517), lasciandolo interdetto, se non furente, al messaggio di saluto in cui il paese mittente si attribuiva l’altisonante nome di “Sol Levante”, facendo maliziosamente pensare a un “sol calante” della Cina. Si trattava dello stesso nome con cui secoli dopo Marco Polo presentava il Giappone all’Europa nella forma Cipangu o Zipagu. Ne sarebbero derivati tutti gli altri nomi europei del “Giappone” dopo che i navigatori portoghesi del Cinquecento popolarizzavano le forme abbreviate Japão, Japam, Japon.
All’epoca i rapporti dei giapponesi con la dinastia riunificatrice dei Sui (589-618) e poi inizialmente coi Tang non erano dei migliori. Alleati coi regni coreani di Koguryo e Paekche in guerra contro Sinla, a sua volta alleato della Cina, i giapponesi compivano nel 663 un ultimo intervento in Corea a difesa di Paekche occupata dai Tang. La flotta nipponica, armata di 27 mila uomini, subiva però una disfatta nella battaglia navale sul fiume Paek Ch’on.
Dopo questo rovescio e superato il timore di un’invasione cinese, il Giappone decideva di partecipare pacificamente alla comunità internazionale dell’Asia orientale e riallacciava lo scambio di missioni col continente. Quelle cinesi arrivavano dalle Ryukyu; quelle giapponesi, composte in genere di quattro navi, approdavano in un primo tempo nello Shandong, dopo avere costeggiato la Corea, per proseguire via terra fino a Chang’an. In un secondo tempo la rotta era abbreviata all’imbocco dello Yangzi, con proseguimento per via fluviale. Le ambascerie erano composte di centinaia di persone, fra le quali molti studiosi e religiosi che si trattenevano vari anni prima del rimpatrio. Migliaia le vittime di naufragi.
I rapporti internazionali si rarefacevano solo dal secolo IX. Dopo l’ultima missione ufficiale al Grande Sinla nel 779 e a Parhae nell’811, nell’837 partiva quella che sarebbe stata l’ultima ambasceria ai Tang, stante il fallimento della successiva in partenza nell’894, l’anno in cui il Kyushu subiva, fra l’altro, un attacco navale da parte dei Jurchin.
Erano secoli di profonda sinizzazione del Giappone, con le popolazioni dell’arcipelago cresciute di numero fin dalle immigrazioni di genti che avevano trovato scampo via mare dalle coste continentali dopo la fondazione dell’impero Qin nel 221 a.C. e lo stato di terrore instaurato dal primo imperatore, Qin Shi Huangdi, con le sue devastanti spedizioni militari a espansione della Cina.
Dopo che gli Han (206 a.C.-220 d.C.) stabilivano nel 108 a.C. la loro supremazia sulla Corea e si intensificavano i rapporti dei giapponesi col caposaldo sino-coreano di Lolang, arrivavano a Chang’an le prime ambascerie dei Wo entrate in relazioni tributarie con gli Han.
Le fonti cinesi tacciono sugli sviluppi che i Wo maturavano dopo la caduta degli Han e la successiva evacuazione delle forze Wei dalla Corea nel 313. Quando il sipario si rialzava nel 391, i Wo si presentavano ormai come una forza politica militarmente attestata sulla punta coreana di Kaya che imponeva uno stato di sudditanza ai regni coreani di Paekche e Sinla. Un loro capo o sovrano, identificato con l’ancora leggendario “imperatore” Hansei (r. 406-411), si insigniva, secondo le fonti cinesi, del titolo di “generalissimo che mantiene la pace” nei “sei paesi dei Wo, Paekche, Sinla, Imna, Jinhan e Mohan”. Un editto imperiale Wei gli confermava il titolo. Per la Cina si trattava vero-similmente di poco più che di una confederazione tribale che chiedeva un riconoscimento sotto la sovranità impe¬riale cinese; per il “re dei Wo” era il battesimo di un primo Giappone in fase di affermazione egemonica sulla penisola e nel vicino arcipelago. Nel 414, come la stele coreana di Kwang’gaet’o ancora ci informa, lo stato coreano di Koguryo conteneva l’espansione giapponese e impediva con la profonda “marcia a Sud” dei suoi eserciti che Sinla e Paekche fossero invase, ma solo nel 562 Sinla riusciva ad annettersi Kaya e a scalzare i giapponesi dal suolo coreano.
La Corea tornava allora a porsi sotto l’alta sovranità cinese: Sinla e Koguryo in formale vassallaggio dalle dinastie settentrionali; Paekche da quelle meridionali, e tutti e tre i regni destinavano al Giappone ambascerie con doni d’oro, d’argento, rame e ferro, sete, pellami, bestiame. Intanto, immigravano nell’arcipelago molti coreani e cinesi inviati come ostaggi o a titolo di tributo, insieme con masse di profughi. Il Giappone intensificava un processo di sinizzazione nelle colture agrarie, con la conversione alla risicoltura e alla bachicoltura per la seta, nonché nelle manifatture e nelle arti, sia distribuendo largamente gli immigrati nell’ambiente rurale del paese, sia riservandosene l’opera per i nascenti centri portuali e urbani. Nella regione del Kansai, nella principale isola di Honshu, sorgevano ormai le prime capitali, edificate sui tracciati urbanistici di quelle coreane e cinesi. Palazzi della corte e residenze della nobiltà erano costituiti da più padiglioni su piattaforme lignee o basamenti in terra battuta.
Dalla Corea il Giappone apprendeva la lingua e la scrittura cinesi. Iscrizioni con caratteri sono stati restituiti da specchi e spade dei secoli V-VI. Avevano carattere propiziatorio o augurale, quelle sulle lame registravano nomi e genealogie dei forgiatori o dei detentori delle armi. In alcuni casi si trattava di spade elargite dai regnanti a capi locali come emblemi di investitura e comando.
Alla conoscenza della scrittura cinese e della cultura letteraria del continente si accompagnava la presentazione ufficiale del buddhismo fatta da Paekche nel 538 o 552. Nel 602 arrivava il monaco Kwalleuk con testi di geografia, astronomia e scienze calendariali; nel 610, proveniente da Koguryo, il monaco Tamching insegnava le tecniche di manifattura della carta e degli inchiostri.
Il recupero di iscrizioni su strisce di legno (mokkan), epitaffi ed epigrafi su pietra o bronzo ha documentato l’uso crescente della scrittura e della lingua cinesi a scopi pubblici e privati. La diffusione della carta moltiplicava le scritture di documenti della corte e della burocrazia, di istituzioni religiose, corrispondenze private e testi letterari. Il sistema cinese del decalco su carta di iscrizioni o stele tombali era adottato parallelamente a quello delle stampigliature con sigilli e matrici di legno, prodrome delle prime tirature a stampa di testi buddhisti con l’incisione di matrici di legno e lastre di metallo. In calcografia, cioè con lastre di rame, era impressa nel 770 un’edizione dello Hyakumanto darani, cioè le “dharani d’un milione di pagode”. Oggi, le darani si annoverano fra i più antichi esempi di stampe esistenti al mondo.
Il clima culturale cresceva elevato intorno all’aristocrazia di corte e a un clero buddhista di estrazione nobile profondamente imbevuti di cultura e gusti cinesi. Dal 675, con l’apertura della prima istituzione universitaria, composta da un corpo insegnante di dotti coreani, si moltiplicavano le scuole per i giovani nobili tenute ormai da Giapponesi che impartivano corsi di scienze e lettere. Materie di studio erano i classici cinesi con le lezioni d’obbligo sul confucianesimo, ma un confucianesimo selettivo che sorvolava sui princìpi degli ideali meritocratici cinesi.
Altre importanti istituzioni culturali e accademiche imprimevano grandi sviluppi agli studi cinesi storici e letterari e promuovevano una vasta letteratura con raccolte antologiche in prosa e poesia.
Alla scuola dello storicismo cinese e coreano, la corte di Nara inaugurava una storiografia ufficiale che teneva pure occasionalmente conto di monumenti e reperti dal suolo. Rispettivamente nel 712 e 720 erano completati il Kojiki (“Memorie dell’antichità”) ed il Nihongi o Nihon-shoki (“Cronache del Giappone”), che rappresentavano le due importanti operazioni culturali intese a depositare per iscritto tradizioni e dati relativi alla prima ‘storia’ del paese. Entrambe le opere, ma in specie la seconda, scritta in cinese, obbedivano almeno in parte all’esigenza di contrapporre una storiografia indigena a quella della Cina, la quale aveva a lungo presentato il Giappone alla stregua di un periferico e remoto mondo barbarico, quello, appunto, dei Wo. Gli autori giapponesi tentavano perfino laboriosamente di ricucire in un racconto unitario e organico quanto la storiografia cinese e quella coreana tramandavano sull’arcipelago. Nella rivendicazione della loro storia e cultura, tenevano però a esaltare l’antichità e l’ascendenza “celeste” della propria stirpe, condividendo il mito coreano della “discesa divina”. Nella canonizzazione giapponese, era Ninigi, l’“augusto nipote” della dea del Sole, Amaterasu, a scendere dal cielo con una schiera di divinità, portando in consegna gli “oggetti divini di tre specie” (il gioiello, lo specchio e la spada). Presa terra sulla vetta Kushifuru del monte Takachiho, Ninigi dava nascita alla schiatta della stirpe solare da cui discendeva la dinastia imperiale giapponese tuttora regnante.
Nel 646 la corte aveva adottato il sistema cinese del computo delle ere di regno. Dall’epoca Han era subentrata in Cina la consuetudine di ripartire e denominare i singoli regni dei sovrani per periodi chiamati nienhao (“designazioni annue”). Il Giappone inaugurava i suoi nengo con l’era Taika (645-649), cosiddetta dal “Grande Cambiamento” che aveva annunciato l’anno prima. Riforme su linee cinesi proclamavano la statalizzazione della terra, la distribuzione dei suoli ai coloni secondo il sistema del “campo uguale”, le esazioni tributarie sui redditi agrari, le corvè ed i servizi di leva. Eserciti a coscrizione obbligatoria erano reclutati per spedizioni al Nord contro gli Emishi o Ezo, predecessori degli Ainu d’epoca storica, e, a sud, nel Kyûshû, per ridurre alla sottomissione altri locali gruppi etnici non ancora assorbiti (Hayato, Kumaso).
L’unificazione legislativa dello stato progrediva dal 668 con la promulgazione dell’Omiryo, il “codice di Omi”, cui seguiva nel 689 l’Asuka no Kiyomihara ritsuryo. Ritsuryo era la lettura sino-giapponese dei nomi cinesi delle leggi penali (lu) ed amministrative (ling). La legislazione cinese era destinata a rimanere alla base dell’ordinamento giuridico del Giappone. Sul Tang Luling del 637 ed il suo commentario, il Tanglu shui, del 653-549), la corte promulgava nel 701 il Taiho Ritsuryo, come il codice prendeva nome dalla nuova era di regno.
Il sovrano giapponese era designato ufficialmente come il Tenno, l’“Augusto Celeste”, un titolo di grande prestigio che traduceva la forma cinese tianhuang e si ispirava sia alla mitica sovranità universale della Cina sia alla regalità sacra buddhista, del cui carisma era carico: tianhuang e tianwang, i “re celesti”, erano anche gli zelanti, severi guardiani del buddhismo, i deva, i Maharaja-deva.
L’imperatore cinese Gaozong dei Tang aveva assunto il titolo di tianhuang nel 675. Quando, nel corso del secolo successivo, sull’uso cinese dei nomi canonici, la corte giapponese attribuiva nomi postumi ai sovrani leggendari e storici dell’ormai lunga genealogia dinastica, i due primi regnanti ad essere insigniti di una qualificazione “celeste” erano Tenchi (“Saggezza celeste”, r. 661-672) e Tenmu (“Valore celeste”, r. 673-686), a indicare forse che era stato con loro che la regalità giapponese aveva formalmente assunto vesti imperiali.
L’ideologia imperiale giapponese si manteneva ben distinta dalla concezione classica della sovranità cinese. Il tenno non personificava un “Figlio del Cielo”, ma il “Nipote celeste”, discendente unico sulla Terra della dea del Sole, inviato su volontà dell’intero consesso divino per essere l’antenato di Jinmu, il leggendario discendente di Ninigi e fondatore dell’impero nel 660 a.C. Ne derivava che il sovrano giapponese godeva, non di un “mandato del Cielo”, a breve o a lungo termine, ma di un perpetuo “mandato dal Cielo”, di per sé irrevocabile. Il tianming cinese (giapponese tenmei), non era che la stessa “parola” del tenno, il suo personale “mandato”, in quanto “divinità visibile”, “incarnata” (aramikami).
L’ideologia politica insita nella tradizione nazionale si combinava successivamente col buddhismo, e Amaterasu era identificata col Buddha Universale Vairocana a massimo lustro del tenno. Si profilava una teocrazia. Nel 743, l’imperatore Shomu promulgava l’editto per l’erezione di una sta-tua del Buddha Universale del Todaiji, il “Grande Tempio dell’Oriente” di Nara e nel 752, alla fastosa cerimonia inaugurale, il paese era proposto come il nuovo grande centro del mondo buddhista in Asia. Ambascerie e missioni vi provenivano fin dalla penisola indocinese e dall’India e, con l’atto di devozione al Buddha, un implicito tributo era rivolto all’imperatore, il quale ormai rappresentava il vicario in Terra del Buddha Universale. Era un grande momento cosmopolitico del Giappone. Nell’eco del panasiatismo Tang, la sua cultura e le arti respiravano il soffio, oltre che della civiltà cinese e coreana, del mondo indo-iranico, asiatico-occidentale, greco-romano. Le collezioni dello Shosoin del Todaiji attestano l’entità dei rapporti intercorrenti con l’estero. Gli oggetti personali dell’imperatore Shomu, la cui vedova donava al tempio, erano da un lato il portato dei rapporti allacciati, tramite la Cina, con l’India e l’Iran; dall’altro, le opere degli artigiani locali: broccati, vasi di bronzo e d’oro, lacche, ceramiche, oggetti di madreperla e di vetro, questi ultimi attestanti le relazioni stabilite o mediate quanto meno dalla Cina col mondo iranico e romano-siriaco.
La storiografia imperiale attendeva a compilare, dopo il Nihongi, le altre sue storie ufficiali in cinese, l’ultima delle quali era il Sandai jitsuroku (“Storia dei Tre Regni”), completata nel 901 e che formava con le cinque precedenti il corpus delle “Sei storie nazionali” (Rikkokushi).
8 gennaio 2015
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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