di Adolfo Tamburello*
Napoli, 3 nov.- Sotto l’imperatore Xuanzong (o Minghuang, 712-756), lo scacchiere centroasiatico ricadeva in subbuglio. Gli Uighuri sopraffacevano nel 744 i Turchi e fondavano un proprio regno nel Gobi; gli Arabi nel 751 battevano i Tang sul fiume Talash e nello stesso anno l’esercito cinese subiva una disfatta da una compagine ancora oscura di tribù proto-mongole, quelle dei Kitan (cin. Qidan), destinati a diventare in seguito e per qualche secolo una grande potenza. Il Nanchao rescindeva l’alleanza coi Tang e si univa ai Tibetani per attaccarli. Di più, nel 755, una grave crisi interna scoppiava in Cina con la ribellione di un generale, An Lushan, di sangue turco-tunguso, il quale faceva mostra del potere acquisito intanto dai comandanti militari di origini straniere con le truppe mercenarie ai propri ordini, una volta che gli eserciti di leva nazionali erano stati sciolti per i loro costi ed era sempre più decaduta l’istituzione di Taizong di un’armata di coscritti composta in maggioranza di contadini sia per la guardia imperiale sia per le truppe mobili e quelle di stanza alle frontiere. Dal 722 l’esercito regolare era stato gradualmente smobilitato e sostituito da mercenari assoldati dapprima per la guardia imperiale, poi anche per le altre truppe. L’elemento “barbarico” aveva mano a mano dominato sulla composizione delle armate e ciò aveva accelerato l’indebolimento della sicurezza della dinastia sul piano militare. Le milizie di mestiere tornavano a rivelare la loro fedeltà, non alla causa imperiale, ma ai propri generali.
An Lushan, al comando di uno dei più strategici distaccamenti militari del Nord-Est, sentitosi offeso dagli intrighi di un parente di Yang Guifei, vicina all’imperatore, marciava su Chang’an alla testa di 200 mila uomini. Occupata Luoyang, vi si proclamava imperatore di una nuova dinastia Yan. L’imperatore Xuanzong riparava nel Sichuan, consentendo durante il ripiegamento che le sue stesse truppe giustiziassero Yang Guifei. Il figlio Suzong, erede al trono (r. 756-762), prendeva l’iniziativa di affiancare al generale Guo Ziyi le forze straniere che rispondevano al suo appello, sostanzialmente un reparto arabo inviato dal califfo Abu Gafar e corpi di cavalleria turchi, tibetani e uigurici. An Lushan moriva agli inizi del 757, ma il figlio ne proseguiva la lotta con l’aiuto del generale turco Shi Siming, finché le forze imperiali domavano la rivolta nel 763.
Nello stesso anno i Tibetani, che avevano già colto l’occasione per occupare vaste zone del Gansu, raggiungevano Chang’an mettendola a sacco. L’intervento di Guo Ziyi recuperava la capitale, ma non espelleva totalmente dalla Cina i Tibetani, che conservavano il Gansu espandendosi fin nel Sichuan e minacciando di occupare anche lo Shanxi. Fra il 783 ed il 786 i Tibetani aiutavano però i Tang a reprimere un’altra sollevazione dei comandi regionali che occupavano ancora una volta Chang’an, e col loro concorso la rivolta era sedata, ma l’alto prezzo da pagare in termini di terre e uomini spingeva la diplomazia cinese a istigare il Nanchao contro di loro, che rimanevano sconfitti nel 794 e subivano un rovescio anche per mano degli Arabi. Una pace col Tibet era quindi stipulata nell’821. Gli Uighuri sollecitavano forti compensi per gli aiuti dati a partire dalla rivolta di An Lushan. Dal 762, convertitisi al manicheismo, il cui culto un decreto imperiale aveva autorizzato in Cina nel 694, esigevano l’extra-territorialità per i manichei e la costruzione di loro monasteri fino allo Yangzi. Costringevano altresì la dinastia a intrattenere con loro traffici di preziose pezze di seta in cambio di pellami e mandrie di ronzini.
Le finanze dello stato erano intanto aggravate dalle ridotte entrate fiscali in seguito all’intervenuto accaparramento di terre e uomini da parte dei grandi possidenti e delle istituzioni religiose immuni da tasse che per riflesso riducevano la piccola proprietà contadina a un 5% del totale dei suoli agrari. Nel 780 una riforma, varata da Yang Yan al fine di dotare l’erario delle risorse necessarie a far fronte ai piani annuali di previsione della spesa pubblica stabiliva l’ammontare da raccogliere per provincia dalle tenute e dalle entrate degli imprenditori e dei mercanti. La riforma introduceva il principio moderno dell’im¬posizione tributaria sui beni immobili e sui redditi da lavoro, di contro al precedente sistema di capitazione. Altri introiti erano assicurati dai generi di monopolio, esteso quest’ultimo al tè in esportazione. La riforma era però in buona parte vanificata dalla debolezza della burocrazia e, nell’im¬mediato, da un’insurrezione dei nuovi commissari militari nelle province.
A corte gli eunuchi tornavano ad acquistare potere incontrastato, giungendo ad assassinare due imperatori, Xianzong (805-820) e Jingzong (824-826). Il tentativo di Wenzong (826-840) di esautorarli facendo leva sul funzionariato a lui fedele provocava nell’835 un bagno di sangue che decimava i quadri della burocrazia. Unitisi ai gruppi taoisti a corte, gli eunuchi montavano un clima di intolleranza contro le altre religioni e suggerivano severe misure repressive che erano varate nell’842 contro il manicheismo e in generale contro le chiese straniere ed estese tre anni dopo al buddhismo.
Wuzong (840-846) intendeva restaurare le finanze dell’impero reincamerando terreni, metalli preziosi e uomini attraverso l’esproprio dei beni ecclesiastici e la restituzione del clero allo stato laico. Saccheggi e vandalismi causavano perdite inestimabili del patrimonio culturale e artistico, con la distruzione di templi e biblioteche, statue, dipinti e la fusione di campane e oggetti liturgici. Vittime di persecuzioni e massacri cadevano i gruppi mercantili specialmente musulmani additati come cause concomitanti della crisi economica del paese. Utilizzando parte del metallo recuperato, lo stato fondeva monete e attrezzi agricoli. Gli oggetti d’oro e d’argento, ridotti in lingotti e verghe, erano immessi nel tesoro imperiale. La persecuzione aveva termine con il successore Xuanzong (846-859), il quale riusciva a imporsi sugli eunuchi e gli astrologi a corte.
Sotto i successori Izong (859-873) e Xizong (873-888), l’aggravamento economico alimentava rivolte popolari. A una prima sommossa, scoppiata nell’860 e duramente repressa, seguiva quella capeggiata da Wang Xianzhi e Huang Chao, che dilagava fra l’874 e l’884, ingrossando le file delle masse contadine incautamente armate dal governo per combattere i rivoltosi. Contro un’armata che arrivava a contare non meno di 600 mila uomini intervenivano ora in soccorso della dinastia le truppe dei distaccamenti militari regionali e le cavallerie degli alleati esterni, specie quelle dei Turchi Shatuo, che avevano intanto riacquistato potere ai confini nord-occidentaìli. Soprattutto determinante era l’intervento del principe shatuo Li Keyong, le cui truppe espugnavano nell’883 Chang’an caduta in mano ai ribelli. Huang Chao trovava l’anno dopo la morte per mano di un nipote, dopo essere stato abbandonato da uno dei suoi migliori luogotenenti, Zhu Wen, passato dalla parte degli imperiali. Rimasti padroni del campo, Li Keyong e Zhu Wen ingaggiavano una lotta, l’uno a difesa della dinastia, l’altro per la supremazia personale. Il secondo appariva vincente nel 907, quando si faceva cedere le insegne imperiali e si proclamava imperatore di una nuova dinastia, quella dei Liang posteriori (907-923), che dava inizio al cinquantennio di divisione della Cina nelle Cinque Dinastie e Dieci Regni (907-960) .
Il meridione cinese era ormai da decenni marginale alla politica imperiale. Solo le rivolte, specialmente quella di Huang Chao, ne avevano messo a ferro e fuoco vaste regioni. Nell’879 Canton era stata saccheggiata e gran parte della sua popolazione massacrata con l’intera comunità straniera che ne formava la colonia.
3 novembre 2014
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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