LEGISMO, TRADIZIONALISMO, NAZIONALISMO:
di Federico Brusadelli *
Roma, 15 ott. - “Per capire e risolvere le grandi questioni della Cina di oggi, dobbiamo investigare le vie e i metodi cinesi”, ha detto Xi Jinping il 13 ottobre rivolgendosi ai colleghi del Comitato centrale del Partito comunista. “La storia è una grande maestra”, ha aggiunto il presidente, ricordando come la Cina di oggi sia “lo sviluppo della Cina di ieri e dell’altroieri” e sottolineando quanto il sistema di governo di ogni paese non possa che essere “intimamente legato alla sua eredità storica e culturale”.
Il profilo “tradizionalista” del presidente cinese, e la sua insistenza sull’importanza del passato come chiave per costruire il futuro, non è una novità. Meno di un mese fa, il 28 settembre, in occasione della festa che commemora la nascita di Confucio, Xi ha partecipato a una conferenza internazionale di studiosi del pensiero cinese classico, ricordando la capacità del confucianesimo di “adattarsi ai tempi” e di “metabolizzare” gli influssi esterni, adattandoli allo spirito cinese (marxismo incluso, ha lasciato intendere). Parole che hanno spinto Nathan Davies, sull’Huffington Post, a definire il nuovo corso di Xi una sorta di “contro-rivoluzione culturale”, e a chiedersi se il Grande Timoniere non si stia “rivoltando nel sarcofago”.
La riabilitazione del passato classico operata da Xi non si ferma al solo confucianesimo, peraltro. Il presidente ha più volte sottolineato il contributo delle fedi tradizionali, dal daoismo al buddhismo, alla “stabilità sociale”, archiviando definitivamente l’ateismo di Stato e riallacciandosi piuttosto a una tradizione imperiale che vede nella religione - a patto che sia controllata dal centro, s’intende - un potentissimo instrumentum regni. Infine, quasi a voler suggellare con i crismi dell’ufficialità la nuova tendenza “classicista” del potere comunista, il Renmin Ribao ha recentemente pubblicato una antologia di citazioni classiche del presidente.
Tale fervore “tradizionalista” - che ha destato l’attenzione di numerosi mezzi di informazione occidentali, da ultimo il New York Times - potrà forse sorprendere chi considera lo sviluppo storico, politico e ideologico della Cina moderna e contemporanea come una semplice risposta agli stimoli, più o meno violenti, giunti da Occidente; quasi una “imitazione” (alla cinese, appunto) di idee e soluzioni di importazione, esterne al sistema autoctono di valori e riferimenti. Lettura che da una parte solleticava l’autocompiacimento occidentale, e dall’altra rispondeva alle esigenze di chi, in Cina, aveva bisogno di disancorare il nuovo Stato dal vecchio Impero.
Eppure i riformatori di fine Ottocento, nel loro tentativo di modernizzare le istituzioni di un impero in declino, si richiamarono a un’interpretazione “eretica” e progressista del confucianesimo; pochi anni dopo, i nazionalisti repubblicani, nella loro battaglia contro la dinastia Qing, si sarebbero riallacciati con orgoglio alla tradizione anti-mancese di tre secoli prima. Lo stesso Mao Zedong (che fra tutti i dirigenti del Partito comunista cinese delle origini fu l’unico a non essersi formato all’estero) non smise mai, nonostante le pubbliche campagne “contro Confucio”, di leggere e citare i Classici, né nascose mai il suo apprezzamento per Zhu Yuanzhang, il ribelle di origini contadine che nel XIV secolo fondò la dinastia Ming e ricostruì l’impero cinese sulle rovine di quello mongolo, mantenendone però intatta la temperie autoritaria.
Non che gli influssi esterni non abbiano plasmato la storia recente cinese, tutt’altro. Ma le antiche radici, per quanto celate, trascurate o rinnegate, non hanno mai smesso di alimentare, e legittimare per vie spesso traverse, il potere. Ora quelle radici vengono definitivamente dissotterrate: Xi Jinping, che ha il non facile compito di traghettare definitivamente la Cina dal “dietro le quinte” al proscenio del mondo globale, sa che sono strumento fondamentale per rafforzare l’identità cinese ed evitare che le spinte interne (la crescita economica e le pressioni sociali) ed esterne (la globalizzazione e l’apertura) la frantumino. E le venature imperiali del potere cinese appaiono con inedita chiarezza.
Nel suo recente saggio ( “Cina. Una storia millenaria”, Einaudi), il professor Kai Vogelsang dell’Università di Amburgo giustamente osserva: “Per il governo cinese, la cui legittimazione si basa sull’unità nazionale, la minaccia della disintegrazione sociale è divenuta il problema più urgente”; ecco perché “il nazionalismo rialza la testa e sembra sostituire il comunismo come ideologia guida”.
Dunque, non è sorprendente che, per raggiungere il duplice obiettivo di rinsaldare l’autorità del Partito comunista cinese in una fase in cui l’accelerazione della globalizzazione può scardinare l’assetto sociale del paese e, contemporaneamente, di riempire il vuoto identitario lasciato dall’autodistruzione del maoismo, Xi attinga ancor più dei suoi predecessori a piene mani dalla tradizione cinese. La tendenza già evidente a partire dagli anni Duemila (gli istituti dedicati a Confucio disseminati per il mondo; i film e le fiction che celebrano le glorie del passato; il restauro, e talvolta la ricostruzione ex novo, del patrimonio architettonico; insomma la riabilitazione del lascito imperiale) viene messo ora al centro dell’agenda politica. Verrebbe da dire che, dopo anni di “pensiero debole” (comprensibile risposta all’autodistruzione del maoismo), i vertici del Pcc si sentono obbligati a riscoprire il “pensiero forte”. Una scelta che va di pari passo con la maggiore assertività della Repubblica popolare cinese sullo scenario internazionale, con toni e rivendicazioni che talvolta appaiono incomprensibili a uno sguardo esterno (si veda, su tutte, la querelle con il Giappone sulle isole Diaoyu)
La tradizione cinese, peraltro, non è certo avara di suggerimenti in tema di arte di governo, e ben si presta a chi cerchi pragmatiche ricette politiche più che speculazioni metafisiche.
A stupire, forse, è che Xi , in uno dei suoi frequenti moniti contro la corruzione dei funzionari, non abbia avuto timore di citare - mentre gli studenti di Hong Kong invocavano la democrazia - nientemeno che Han Feizi e Shang Yang, i maestri Legisti del III secolo a. C. le cui dottrine sono state per secoli demonizzate dai letterati confuciani come quintessenza di una visione autoritaria, quasi “disumana”, del potere. “Il potere non parla”, “il potere emana dal centro”, “il potere non si divide”, suggerisce Han Feizi. Non ha citato questi passi, Xi Jinping, ma in fondo è come se lo avesse fatto.
* Giornalista, dottorando presso l'università degli studi di Napoli L'Orientale
15 ottobre 2014
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