di Alessandra Spalletta
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Roma, 21 mag. - Il 25 maggio si vota per le elezioni amministrative. Nella lista Sel del comune di Prato c’è un cittadino italiano di origini cinesi candidato a consigliere comunale, Marco Wong. Volto e nome noti alla comunità cinese d’Italia e agl’italiani che con la Cina hanno stretti contatti, Wong, 51 anni, è presidente onorario di Associna, associazione che si occupa degli immigrati cinesi di seconda generazione. La sua candidatura a Prato non viene a caso, Wong si era già presentato alle elezioni di cinque anni fa, con riscontri non particolarmente positivi; aveva ricevuto persino minacce, e in generale preso coscienza di un atteggiamento ostile da parte degli elettori. Oggi il clima è cambiato. Soprattutto dopo la tragedia di Prato del dicembre scorso, quando il rogo in una fabbrica gestita da cinesi provocò la morte di 7 persone in un capannone al Macrolotto. Una strage che ha messo in luce una realtà che si conosce ancora poco, fatta di sfruttamento di lavoro clandestino e responsabilità condivise dalla “parte alta e bassa della filiera”. “Prato ha bisogno di un cambiamento” rispetto all’amministrazione uscente che ha usato il pugno di ferro contro le fabbriche irregolari ottenendo però ben poco, secondo Wong: “con gli slogan non si risolvono i problemi, i blitz non portano maggiore sicurezza e legalità”. Wong non sarebbe il primo consigliere comunale nella storia d’Italia, ma il secondo: a Campi Bizenzio, comune confinante con Prato, è già approdato al consiglio comunale il giovanissimo Angelo Hu, che non ha ancora compiuto 20 anni. L’immigrazione cinese in Italia non è un fenomeno recente, i primi nuclei si stabilirono prima della seconda guerra mondiale. Il boom arrivò come per altri paesi dopo gli anni ’80 quando la Cina si aprì al mondo. La comunità cinese in Italia, da Milano a Roma passando per Prato che è quella più numerosa, ha da sempre un evidente problema di integrazione. Quante volte abbiamo sentito parlare di una diaspora che vive nel segreto di luoghi nascosti? “L’integrazione passa anche attraverso la rappresenta politica”, spiega Wong “se i cinesi non votano e non si sentono coinvolti, e le istituzioni non prendono in considerazione i loro legittimi interessi. Quando c’è una mancanza di legittimità un pilastro fondamentale della democrazia viene a mancare”. Con la crisi, poi, imprenditori e commercianti italiani hanno dato la colpa a loro, i cinesi che producono a basso costo perché sfruttano i lavoratori e non pagano le tasse. Che hanno occupato il commercio di interi quartieri, desertificandoli. C’è chi punta il dito contro le mafie. Pregiudizi e leggende metropolitane, in parte; non si può fare dell’erba tutta un fascio. Dall’altro lato la Cina che si prepara al sorpasso degli Usa e da cui l’Occidente non può prescindere per far fronte ai problemi che assillano le nostre economie. AgiChina ha incontrato Marco Wong e gli ha chiesto di raccontarci chi è, cosa fa e cosa vuol fare per Prato. E cosa significa sentirsi ancora oggi straniero a casa propria.
Marco Wong si racconta.
Cinese di seconda generazione, nato e cresciuto in Italia. Come molte seconde generazioni ho vissuto il trauma del richiedere il permesso di soggiorno per vivere nel paese in cui ero nato. Dopo aver preso la cittadinanza italiana, ho voluto realizzare il sogno di bambino: andare a riscoprire le mie radici. Inizia così una carriera internazionale e negli anni ’90 mi trasferisco in Cina a rappresentare Pirelli e Telecom Italia. Ho utilizzato la diversità come fattore competitivo. In Cina sono rimasto sei anni, un periodo abbastanza lungo per fare esperienza; tra gli incarichi ricoperti anche quello di direttore della jv di Telecom Italia. Dopo la Cina mi sono trasferito in Perù per seguire lo start up societario del gruppo Telecom. Intanto sono nati i miei figli, il grande a Roma la piccola in Cina. Il rientro in Italia è stato uno shock. Dal lavorare come dirigente in una grande azienda con grande visibilità sulla vita del gruppo, al tornare in Italia e sentirsi un numero tra tanti. Ma è dal punto personale che lo shock è stato maggiore; ho trovato una situazione che pensavo nel frattempo fosse mutata: la società a distanza di anni non si era ancora attrezzare per accogliere i flussi migratori. Mi sentivo ancora uno straniero: in Sud America era normale che mi sentissi forestiero perché di fatto lo ero, ma sentirmi ancora così in Italia voleva dire che certi problemi non erano ancora stati superati. Sono entrato a far parte di Associna (nata nel 2007) su invito di uno dei fondatori che vedeva incarnato in me un possibile esempio per le seconde generazioni, quei cinesi nati e cresciuti in Italia oppure nati in Cina e cresciuti in Italia. L’esempio di qualcuno prima di te che ce l’aveva fatta a superare certe barriere invisibili che ti si frappongono davanti quando sei un cinese in Italia. E’ nato forte il desiderio di condividere il tormentato percorso identitario che ho avuto oltreché le esperienze.
Ci parli di Associna.
La missione originaria di Associta è dare voce ai cinesi di seconda generazione ma via via, passando in secondo piano il problema linguistico dal momento che i medesimi sempre più parlano italiano, abbiamo iniziare a seguire il fenomeno dell’immigrazione cinese nel suo complesso. Diventando un punto di riferimento. Ho voluto colmare un gap informativo. Le prime generazioni di immigrati non hanno voglia di esporsi e succede così che media e istituzioni non conoscano bene il fenomeno migratorio cinese. Una mancanza di conoscenza da cui poi nascono leggende metropolitane e incomprensioni varie che talvolta rischiano di degenerare in fenomeni peggiori.
Come vi siete mossi?
Quando c’è bisogno interveniamo per facilitare la decodificazione della realtà migratoria cinese in Italia. Oltre a organizzare iniziative identitarie rivolte agli immigrati cinesi per avvicinarli di più al mondo italiano, come ad esempio i corsi di alfabetizzazione italiane per i ragazzini cinesi nelle scuole.
Progressi compiuti e progressi mancati. C’è una parte d’Italia che vi guarda con sospetto, vi considera una colonia di lavoratori sfruttati o una minaccia ai nostri imprenditori, convinzioni o pregiudizi difficili da sradicare. La mentalità delle istituzioni e della gente è cambiata in questi anni?
La Cina in Italia è strettamente collegata con la Cina paese. La Cina come sappiamo sta conoscendo un cambiamento così veloce da far apparire un paese più statico come l’Italia persino ingessato. Non deve stupire che l’Italia faccia fatica a comprendere il cambiamento in atto in Cina. Il fenomeno della migrazione cinese è cambiato perché la Cina è cambiata. All’italiano medio mancano spesso le basi per comprendere il fenomeno migratorio, e lo è ancora di più se si parla di Cina perché il cambiamento stordisce. Un gap informativo indubbiamente difficile da colmare perché capire la Cina richiede uno sforzo che molta gente non è in grado, o non ha voglia, di fare.
La responsabilità è soltanto nostra oppure c’è qualcosa che i cinesi dovrebbero fare per farsi capire meglio?
L’aspirazione di molti cinesi in Italia è quella di fare soldi e tornare in Cina. Un’aspirazione comune agli immigrati di tutto il mondo. La Cina non è un paese in guerra da cui chi emigra fugge inesorabilmente; la Cina è in forte cambiamento e offre opportunità reali di rientro. Per chi soprattutto lavora in settori quali l’import c’è la volontà di conservare un legame economico con la Cina. Molti immigrati cinesi vivono quindi lo stare in Italia come una condizione provvisoria. E ciò limita la volontà di investire su una maggiore integrazione oltreché una più forte comprensione della società che li circonda.
Un altro fattore riguarda invece l’influenza culturale della Cina. In Italia siamo impregnati della cultura di altri paesi ma non ce ne rendiamo conto perché lo diamo per scontato. Guardiamo un sacco di film americani e non ce ne meravigliamo. Così come l’italiano medio non si scandalizza del fatto che in Italia ci siano molte basi militari americane. L’influenza politica americana è frutto di un processo lungo agevolata dall’influenza culturale. Hollywood è spettacolo ma anche portatrice di valori e modelli di un paese molto diverso dall’Italia. La Cina non ha mai esercitato questo tipo di influenza perché è stato a lungo un paese chiuso, almeno fino alla politica di riforme e di apertura (1979). Trent’anni di apertura al mondo sono pochi. I progetti culturali che la Cina ha messo in piedi, quali gli Istituti Confucio, richiedono del tempo per maturare dei frutti. Mentre la Cina si prepara al sorpasso economico sugli Usa, il suo peso economico non trova una corrispondenza nell’influenza culturale soprattutto nei paesi occidentali. Uno sbilanciamento che in qualche caso terrorizza l’Italiano medio.
La realtà è fatta anche di esempi positivi: dalla presenza sempre più massiccia degli studenti cinesi negli atenei italiani (il gruppo più consistente di studenti stranieri alla Bocconi è composto da cinesi), a Polimoda il polo del design italo-cinese a Palazzo Strozzi, a Firenze. Storie, queste, che parlano di graduale apertura. E non ci si riferisce solo degli italiani che in tempi di crisi hanno iniziato ad andare dal parrucchieri cinesi perché risparmiano. Com’è cambiata la percezione?
L’Italia è sempre stata un crocevia di varie culture e flussi di persone che andavano e venivano. Con la crisi ci si richiude molto in se stessi. E si tende a cercare una causa esterna ai proprio guai. Un capro espiatorio. E s’innescano meccanismi di invidia per qualcuno che viene percepito come una delle possibile cause della crisi. Quindi, se l’economia va male e non c’è lavoro, è colpa della globalizzazione. Chi ha guadagnato dalla globalizzazione? La Cina. Perché non c’è lavoro? Perché la fabbrica delocalizzano in Cina. La percezione negativa viene appunto acuita per colpa della crisi.
All’italiano che accusa il cinese di essere la rovina degli imprenditori italiani, cosa risponde?
Proverei a spiegare meglio le ragioni della crisi economica che si protrae ormai da tempo e analizzerei i motivi per i quali l’Italia ci mette tanto tempo per uscirne. Spiegare all’italiano medio la finanza creativa e i derivati che sono stati all’origine della crisi non è facile. E’ molto più semplice prendersela con la Cina.
Le accuse di concorrenza sleale e di evasioni fiscale rivolte ai cinesi da chi magari è stato costretto a chiudere la fabbrica non saranno del tutto infondate. C’è sicuramente un problema reale di condizioni che rende necessaria una forte campagna di sensibilizzazione tesa a migliorare le condizioni di lavoro dei connazionali cinesi in Italia.
E’ necessario fare una distinzione tra la situazione italiana e quella di altri paesi. La comunità cinese negli Stati Uniti non è di certo conosciuta per attività irregolari o evasione del fisco. A Prato si associa spesso il fenomeno dell’immigrazione cinese all’illegalità, spesso ingiustamente. Se ci spostiamo invece a Vancouver in Canada con una percentuale di cittadini cinesi ben superiore di quella di Prato, il capo della polizia è un ex immigrato cinese.
In Canada a un certo punto ti affranchi dalla condizione di immigrato, una volta acquisita la cittadinanza. In Italia invece si è considerati eterni immigrati anche quando non lo si è più. Prendi me. Forse è un po’ spiacevole da dire; se in Italia parte dell’economia è sommersa, è chiaro che gli immigrati si adattano e puntano su un ecosistema di questo genere.
Elezioni. Parliamo della sua candidatura a consigliere comunale della lista Sel. Ma prima facciamo un passo indietro. La tragedia di Prato ha svelato una realtà difficile, qual è la versione giusta dei fatti?
Prato è una realtà ben più complessa di ciò che si può pensare. Una realtà che non è stata affrontata con la giusta complessità. Da un lato negli anni passati c’è stato forse un’assenza di governo sui flussi migratori e forse le istituzioni non erano pronte. Cinque anni fa molti di questi nodi irrisolti sono venuti al pettine. E’ emersa la realtà dell’immigrazione cinese di Prato. E l’amministrazione locale ha puntato la campagna elettorale sui temi della legalità e della sicurezza. Cinque anni dopo i problemi di legalità e di sicurezza sono irrisolti. La città è più insicura di prima. E’ evidente che puntare su slogan che semplificano la realtà, semplicemente, non funziona. La realtà pratese è fatta di molte aziende e laboratori, come nel caso di quelli andati a fuoco, in situazioni irregolari e condizioni di lavori ben lontani dall’essere ottimali. Si tratta di lavoratori che lavorano per un’intera filiera in condizioni ben note sia dalla parte alta che da quella bassa della filiera medesima. A chi commissiona il lavoro fa comodo che i lavoratori lo svolgano in condizioni di irregolarità, perché ciò consente loro di consegnare il lavoro in tempi molto rapidi. Il fatto che il lavoro si regga sulla disponibilità a garantire tempi di consegna rapidi, lavorando anche di notte, favorisce l’irregolarità. Se ti consegnano 5mila capi da cucire alle sei del pomeriggio chiedendo che siano pronti l’indomani mattina, è difficile lavorare in condizioni di regolarità.
Come si fa a migliorare le condizioni di lavoro dei connazionali cinesi nelle fabbriche pratesi?
Migliorare le condizioni di lavoro deve essere un obiettivo; non è tollerabile che qualcuno debba morire ingabbiato dentro una fabbrica. Ma non è con uno slogan che si risolvono i problemi. L’amministrazione uscente ha puntato molto sul lato repressivo, mandando squadre di interforce composte da polizia e guardia di finanza per svolgere controlli a tappeto. Risultato? Chiusura di capannoni, sequestro di macchinari. Senza risolvere i reali problemi di sicurezza dei lavoratori.
Facciamo un esempio concreto.
Chi lavora nei capannoni spesso ci vive anche. Arriva la squadra di interforce e la chiude. I lavoratori si ritrovano sulla strada. E vanno da un’altra parte lavorando nelle stesse condizioni, in attesa del prossimo controllo.
Quale soluzione propone?
C’è da distinguere tra irregolarità e sicurezza. Ci sono laboratori irregolari che possono essere portati intanto a condizioni di sicurezza. E situazioni irregolari ad avvicinarsi a condizioni di regolarità. Non è detto che un’unica ricetta funzioni per tutte le situazioni.
Studiare quindi caso per caso.
Si dice ad esempio che bisogna evitare la promiscuità tra residenziale e produttivo. Però la tempo stesso quando alcuni di questi imprenditori andavano a cercare soluzioni esterne al loro capannone per i loro dipendenti, sono seguiti i controlli per evitare un sovraffollamento nelle aree abitative intorno alle fabbriche. E’ come giocare a nascondino e ciò impedisce di arrivare a una soluzione vera. I blitz sono più propagandistici che altro.
E quindi a Prato ci vuole un consigliere comunale cinese che punti al dialogo come alternativa al blitz. Non sarebbe però il primo in Italia…
A Prato, sì. Ma a Campi Bisenzio (Comune di Firenze) è entrato di recente al consiglio comunale il giovanissimo Angelo Hu (20 anni). Il primo consigliere comunale cinese nella storia d’Italia.
Possiamo in effetti fare un esempio parallelo tra due realtà confinanti come Prato e Campi Bizenzio. A Campi Bizenzio c’è una percentuale di cinesi simile a quella pratese.
Quanti, la stima più attendibile?
Dicono che ci siano 20mila cinesi regolari e altrettanti 20mila irregolari. Una stima che mi sembra esagerata. Negli irregolari vengono conteggiati non solo i clandestini ma anche chi proviene da altri paesi europei e hanno regolare permesso di soggiorno in un altro paese europeo.
Torniamo al parallelismo con Campi Bisenzio.
A Campi Bisenzio si sono succedute varie amministrazioni che hanno cercato di dare risposte politiche ai vari problemi che nascono da un cambiamento sociale. Nella scorsa amministrazione c’era un assessore per l’integrazione di origine cinese che è diventato un punto di riferimento per la comunità cinese. Un esempio da cui è nata anche la nuova esperienza del consigliere Angelo Hu. Tutto ciò sfata uno dei miti dei cinesi non coinvolti politicamente. Alle prossime elezioni amministrative oltre a me c’è un’altra candidata cinese a consigliere comunale a Sesto Fiorentino. A Prato invece come abbiamo visto la risposta è stata solo repressiva con risultati diversi.
Dal dialogo possono venire quindi risultati importanti.
Ha scelto come slogan della campagna elettorale “Cambiare si può, il sogno di una città migliore”.
Un sogno di normalità. Non vivo a Prato, vivo a Roma. Mi ero candidato la volta scorsa per portare avanti un certo tipo di messaggio. E francamente era stata un’esperienza da un lato interessante ma anche faticosa. Ho ricevuto insulti e minacce. Quindi non pensavo di ripetere l’esperienza. Ma anche questa volta la mia squadra ed io (Associna e altri compagni di battaglia) abbiamo pensato che fosse importante candidare qualcuno di noi per rappresentare la comunità cinese di Prato. Le persone più adatte erano però spaventate all’idea di farlo per timore di ripercussioni sulle proprie attività imprenditoriali, e alla fine hanno proposto me che stando a Roma, magari sono più protetto.
I tempi sono più maturi rispetto a 5 anni fa?
Quest’anno ci crediamo di più. Innanzitutto cinque anni gli elettori cinesi erano molto di bene e meno preparati. Oggi sono all’incirca 200 i cinesi con diritto di voto. Puntiamo molto sulle persone in generale che non sono pregiudizialmente ostili ma cercano delle soluzioni. Hanno visto il fallimento di 5 anni di politiche e di obiettivi non raggiunti. Quindi ci avvantaggia una forte controprova che certe politiche non funzionano e c’è bisogno di un cambiamento.
Alcuni elettori pratesi vi guardano con simpatia…
C’è meno ostilità rispetto al passato.
Perché Sel?
Essenzialmente perché me l’hanno proposto. Forse altri partiti hanno più paura.
Sta facendo campagna elettorale pubblicando vignette umoristiche sul social.
Abbiamo puntato sull’ironia. Per sdrammatizzare certi temi attraverso cercando una chiave ironica per lanciare messaggi seri. Oggi la realtà dei social network si è evoluta. E in modo economico e a distanza è possibile coinvolgere un numero di persone in modo impensabile rispetto a prima. Sulla pagina facebook alcuni post hanno avuto quasi 20mila visualizzazioni. Con un sforzo abbastanza relativo. Le statistiche ci dicono che quella cosa piace di più quell’altra di meno. Poi stiamo facendo sensibilizzazione per istruire i cinesi aventi diritto di voto a votare. Abbiamo per esempio realizzato una vignetta dove spieghiamo come si vota. Una delle ragioni per le quali è assente l’integrazione è perché i cinesi non votano e non si sentono coinvolti, e le istituzioni non prendono in considerazione i loro legittimi interessi. Quando c’è una mancanza di legittimità un pilastro fondamentale della democrazia viene a mancare.
21 maggio 2014
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