di Adolfo Tamburello*
Napoli, 19 mag. - All’indomani della fondazione dell’impero nel 221 a.C., Qin Shi Huangdi estendeva a questo gran parte delle istituzioni dello stato su cui regnava dal 246. Lo spirito di supremazia primeggiava sui disegni comunitari o di integrazione politica. Anche il nome dell’impero restava quello dei Qin. Da esso sembra derivi la denominazione di “Cina”, adottata nella forma Sina/Thina dai geografi greci e romani forse attraverso mediazioni indiane o iraniche e reintrodotta nell’uso moderno dai navigatori portoghesi del secolo XVI. Marco Polo parlava già di un “mare di Cin”.
L’imperatore esprimeva la nuova potestà attraverso il prestigioso appellativo di huangdi (“Augusto signore”). Il titolo di di era stato usato fin dall’epoca degli Shang per designare la regalità ancestrale e nell’ultimo periodo degli Stati Combattenti aveva indicato un imperium sui wang dei singoli regni caduti nell’orbita degli Stati maggiori. Il titolo era ora preceduto dall’attributo huang, “augusto”, che richiamava la mitica sovranità dei sanhuang e wuhuang, i “tre” e i “cinque augusti”, di cui parlavano tradizioni secolari per leggendari sovrani concepiti come “eroi culturali”. Il titolo complessivo di huangdi esprimeva una sovranità universale a maggior carisma della sua qualità di “Figlio del cielo” (tianzi).
Entrambi gli appellativi duravano fino alla nostra epoca (al 1911) insieme con l’istituzione fondata da Qin Shi Huangdi, pur attraverso varie eclissi dell’unità imperiale. Al momento, questa trovava la condizione per imporsi nel desautoramento delle grandi famiglie dei vecchi stati che avevano interessi e seguito in vasti territori. Per reprimere reviviscenze regionali, l’imperatore sradicava le nobiltà dai luoghi d’origine. Quelle che ricevevano il trattamento migliore erano le centoventimila famiglie trasferite nella nuova capitale, Xianyang, presso l’attuale Xi’an, nello Shaanxi, che giungeva a contare oltre un milione di abitanti. Le nuova dimore erano edificate negli stili delle regioni di provenienza. Il palazzo imperiale esprimeva con l’Apang la nuova concezione di un’architettura celebrativa monumentale. Davanti a esso erano erette dodici grandi statue di bronzo, che si voleva fossero state fuse con parte dei metalli requisiti nei territori dei vecchi stati. La detenzione privata di armi era proibita.
Molte famiglie, a migliaia, erano deportate sia nel Sud e all’Ovest sia alle frontiere settentrionali ove erano intrapresi i lavori della Grande Muraglia messa in opera col raccordo dei tratti delle mura preesistenti già poste a difesa dagli attacchi dei nomadi. A questa vi erano adibiti non meno di 300 mila uomini in stato di detenzione o di lavoro coatto; 700 mila erano impegnati nell’edificazione dei palazzi della nuova capitale, e sembra che altrettanti ne fossero reclutati per la colossale tomba imperiale.
La coercizione gravava sugli arruolamenti per gli eserciti: fra le masse di coscritti figuravano pri-gionieri politici, carcerati comuni, criminali, dementi. Spedizioni di conquista partivano, verso il Nord-Ovest, fino al Gansu; verso il Sud-Ovest, alla volta del Guangdong e dell’odierno Vietnam; verso il Sud-Est, in direzione del Guangxi. Nel meridione erano posti di stanza 500 mila uomini per lo scavo dei canali che collegavano il Fiume Azzurro con l’estremo Sud e provvedevano al raccordo delle navigazioni marittime e fluviali e alle grandi imprese idrauliche per l’agricoltura. Questa era promossa con colonie militari che sterminavano, assimilavano o scalzavano le popolazioni locali.
Nelle province erano demolite le vecchie fortificazioni e abbattute le mura confinarie che avevano diviso i vecchi stati. L’abolizione delle barriere intensificava gli scambi interregionali e mercati erano aperti presso stazioni di posta e porti. Erano unificate le misure di peso, capacità e lunghezza, e monete di nuovo corso erano fissate in un unico conio di rame, di forma circolare, con un foro centrale quadrato per essere raccolte in filze. Il modello, già antico, si sarebbe diffuso e conservato in uso fino ai nostri tempi in gran parte dell’Estremo Oriente.
L’amministrazione dello stato adeguava alle nuove dimensioni territoriali il sistema delle circoscrizioni periferiche già introdotto nel regno di Qin. L’impero era diviso in trentasei province, che erano presto portate a quarantotto, articolate a loro volta in distretti. Comunicazioni e trasporti terrestri beneficiavano di vie “imperiali” che si diramavano dalla capitale nelle varie direzioni. Per i carri erano imposti scartamenti fissi degli assi delle ruote perché incidessero uniformi binari sui manti in terra battuta delle carreggiate. Regolari servizi postali intercorrevano fra la capitale e i capoluoghi delle province.
I governatori provinciali, di diretta nomina imperiale, avevano competenze civili; i comandi militari, con i loro distaccamenti, facevano capo a generali agli ordini di un capo supremo dell’esercito, il quale figurava come uno dei ministri dell’imperatore e al pari dei ministri in carica per gli affari civili non godeva potere di delega ed era tenuto a controllare che gli ordini imperiali fossero eseguiti. Ispettori di nomina e fiducia imperiali riferivano al sovrano o alla sua cancelleria l’operato delle autorità provinciali, civili e militari, anche in merito alle amministrazioni distrettuali. Tutte le cariche erano revocabili dal sovrano.
Il codice Qin, travasato nella nuova codificazione con le sue leggi draconiane, ivi compresa quella della mutua responsabilità collettiva, imponeva un ordine generale. Pene spietate erano sofferte da chi osava esprimere ribellione o semplice dissenso. Il rogo dei libri concludeva la condanna dell’intera tradizione filosofica, giudicata ostile al regime.
La riforma della scrittura era realizzata con uno stile derivato dalle antiche forme sigillari Zhou e restituiva alla Cina un corpo unitario di caratteri, di contro alle grafie difformi che si erano sviluppate nei vari stati durante i “Regni combattenti”. Per tutto l’impero erano incise su lastre di pietra iscrizioni celebrative dell’unificazione imperiale.
Il regime di terrore dava adito a molte popolazioni ai confini di prendere scampo con la fuga verso aspre zone di montagna o all’interno di foreste e giungle. Qualche esodo fu autorizzato da Qin Shi Huangdi in persona, se così deve intendersi la diaspora che la leggenda legò a un astuto maestro taoista, Xu Fu, il quale, facendo leva sulla credulità del sovrano, metteva in salvo un folto seguito di persone, ingannandolo con la lusinga di andare a procurargli la “droga dell’immortalità”. Al ritorno da un primo viaggio alle mitiche isole dei beati del Penglai, Xu Fu gli faceva presente di avere sì raggiunto le isole, ma non era riuscito a ottenerne l’elisir per l’inadeguatezza dei doni portati. “Occorrevano”, lo Shiji racconta: “molti fanciulli e fanciulle di buona famiglia e operai esperti. […] Shi Huangdi restò contento e destinò tremila adolescenti e fanciulle; dette a Xu Fu cereali dei cinque tipi e operai esperti. Allora Xu Fu partì, e trovata una località tranquilla e ferace, si fermò, si proclamò re e non tornò più”. Lo Hou Han-shu, la “Storia degli Han Posteriori”, compilata nel V secolo d.C., ricordava ancora: “La tradizione vuole che il Primo Imperatore mandasse un taoista, Xu Fu, a capo di molte migliaia di giovani e fanciulle alla ricerca degli immortali del Peng-lai, ma senza successo. […] Hsü Fu non fece ritorno in patria e si stabilì su un’isola. Generazione dopo generazio-ne, adesso vi dimorano diecimila famiglie. Periodicamente vengono per acquisti...”.
È stato proposto che la leggenda si riferisse al popolamento di qualche isola del Mar Cinese settentrionale (Bohai). Quando fu conosciuta dal Settecento in Europa, dette spunto alla teoria di una precoce “scoperta” cinese dell’America. In pieno Novecento, uno studioso cinese ha identificato Xu Fu nella figura leggendaria di Jinmu, il mitico fondatore dell’“impero” giapponese.
19 maggio 2014
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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