Twitter@BorzattaP
Milano, 10 apr. - L’interessante intervista, su queste colonne, di Emma Lupano a Jonathan Fenby in merito al suo ultimo libro “Will China dominate the 21st century?” è straordinariamente interessante per almeno due motivi.
Il primo è ovviamente la tesi dell’intervistato che la Cina NON dominerà il XXI secolo, come hanno invece fatto – almeno in parte – gli Stati Uniti nel XX secolo e il Regno Unito nel XIX (e l’Impero Romano un millennio fa). Le motivazioni sono quelle ben indicate da Fenby e non le voglio ripetere qui. Ne aggiungo una che credo sia importante: gli Stati Uniti e il Regno Unito prima, avevano un modello di società e di stato (io lo chiamo un paradigma) che era per molti versi “superiore” a quello degli altri stati che “dominavano”. In altre parole il loro modello era “desiderabile” sia pure con i lati negativi del collegato “colonialismo”. Oggi la Cina non ha un paradigma “superiore”. Sta sicuramente migliorando il suo ed è in un difficile passaggio dal paradigma comunista/statalista verso una “democrazia” sia pure con caratteristiche cinesi, ma non credo che molti popoli del mondo desiderino il modello cinese.
C’è però un secondo motivo, forse ancor più interessante, che è implicito nelle tesi di Fenby. La Cina sarà uno dei tre o quattro grandi attori della scena mondiale del XXI secolo insieme a Stati Uniti, Giappone, Europa e forse Russia. Nel corso del secolo potrebbero anche rafforzarsi attori oggi marginali come il gruppo dei Paesi Asean, l’India, ecc. Questo ovviamente nell’ipotesi che non accadono catastrofi di nessuna natura: guerre “mondiali”, cataclismi immani, ecc.
Saremo quindi in un mondo multipolare con fortissime interrelazioni economiche, politiche e culturali tra tutti questi paesi. Non essendoci una potenza “egemone”, non ci sarà neppure una cultura “egemone” come è stata ad esempio quella americana nella seconda parte del XX secolo.
Il XXI secolo vedrà quindi il formarsi, per amalgama, di una cultura “globale” con forti differenziazioni locali, ma con elementi di ognuna sparsi nelle altre. Pensate, se volete un esempio facile, alla lingua – misto di inglese, cinese e giapponese – parlata nella Los Angeles del 2019 di Blade Runner. Ovviamente l’amalgama non riguarderà soltanto la lingua, ma tutti gli aspetti di una cultura compresi i valori.
Questo scenario può piacere o meno. Ma è molto probabile che accada in misura più o meno grande. Ci saranno sicuramente delle sacche di “resistenza” all’amalgama come gli Amish negli Stati Uniti e anche i talebani afgani. Ma tutti saremo contaminati da questo intrecciarsi di culture.
Se traduciamo in termini geopolitici questo processo potremmo dire che tutte le nazioni avranno il loro pezzettino di soft power.
In questo tipo di ragionamento contano però molto i guadagni netti: in un processo geopolitico alla fine si calcola chi ha guadagnato di più in territori (recentissimo caso Russia e Ucraina con la Crimea) o in accesso a elementi scarsi (fonti energetiche, acqua, ecc.).
Facciamo allora il bilancio in termini di soft power. Alla fine del XXI secolo, tutte le principali nazioni avranno probabilmente un po’ più di soft power. Chi avrà però avuto l’incremento più grande sarà verosimilmente stata la Cina. Chi invece avrà avuto un incremento quasi nullo saranno stati gli Stati Uniti.
Questo scenario pone alcune domande che mi sembrano oggi quasi assenti tra gli osservatori di questi fenomeni.
UNO. La percezione di queste differenze d’incremento potrà generare pericolosi irrigidimenti con deflagrazioni violente più o meno forti? Potrà nascere la talebanizzazione di altre “culture” come, ad esempio ed estremizzando, quella dei Tea Party negli Stati Uniti?
DUE. Nella speranza che tutto proceda per il meglio, il risultato finale (l’amalgama di una cultura “globale”) comporterà un effettivo miglioramento della ‘nazione’ umana? La scienza ci dice infatti che la diversità – vis á vis la ferrea legge dell’evoluzione – è una ricchezza e una garanzia di sopravvivenza ai mutamenti del contesto; in questo scenario si rischia di avere una diminuzione netta delle diversità culturali.
TRE. Occorre prepararsi a questo processo? Non è forse meglio essere consci di quanto sta per accadere e magari interrogarsi sulla propria cultura e sui propri valori, non per opporsi all’amalgama, ma per contribuirvi al meglio?
QUATTRO (e qui la numerologia cinese ha significato). In Italia quale coscienza c’è di questi temi e quale è la preparazione della nostra leadership a comprenderli ed affrontarli?
10 aprile 2014
© Riproduzione riservata