di Adolfo Tamburello*
Napoli, 24 mar. - Nella notte fra l’11 e il 12 gennaio un grave incendio ha devastato la cinese Shangri La, sita nella vecchia città di Dukezong, nella prefettura autonoma tibetana di Diqing, nello Yunnan, nell’Ovest della Cina. Rimane un interrogativo se e come verrà ricostruita. La Repubblica.it del 17 marzo ha messo in onda una foto del cumulo di macerie che resta del sito.
Shangri La, come molti sanno, ha una lunga storia alle spalle. I cinesi nel 2001 ne scelsero il nome per richiamare l’attenzione mondiale su una località di promettente richiamo turistico e nell’idea di identificarla con la terra immaginaria dell’Orizzonte perduto di James Hilton (1900-1954). Il romanzo, pubblicato nel 1933 e rimasto nei decenni un best-seller anche per la memorabile versione cinematografica che ne seguì con la regia di Frank Capra e la sceneggiatura dello stesso Hilton nel 1937, contribuì ad accrescere il fascino del Tibet come paese dei misteri iniziatici legati al Bon-po e al lamaismo buddhista. Servì anche l’orientalismo epidermico di viaggiatori, teosofi e mistici alla ricerca di uno sperduto Eden in Asia.
L’Italia aveva dato negli anni precedenti un grande contributo alla rivelazione del Tibet. Aveva riscoperto la “Relazione” di un gesuita del primo Settecento, Ippolito Desideri (1684-1733), poi annoverato in assoluto come il pioniere europeo degli studi tibetani. Fra i nostri connazionali, lo avevano fatto conoscere internazionalmente con le loro pubblicazioni Carlo Puini dal 1876 e soprattutto Filippo De Filippi con un lavoro pubblicato a Londra in prima edizione nel 1931. Seguivano le spedizioni e i libri di Giuseppe Tucci .
Fra gli studiosi europei che si occuparono all’epoca di Desideri e lo rivelarono al mondo ricordiamo Sven Hedin col monumentale Southern Tibet del 1917; il gesuita C. Wessels con la sua opera sui gesuiti viaggiatori in Asia centrale, pubblicata all’Aia nel 1924; H. Hosten per la pubblicazione di un epistolario di Desideri nel 1938.
Proprio nel 1938 partiva alla volta del Tibet una missione scientifica tedesca forte di un retroscena organizzativo nazista alla ricerca, non solo, ma anche di quanto ancora di “occulto” o occultistico potesse riservare il Tibet con le sue risorse umane e sovrumane…
L’Europa ricordava ancora dal Medioevo il favoloso Catai e le leggendarie comunità cristiane disperse in Asia insieme col mitico “regno” del prete Gianni. Ai primi del Seicento i Portoghesi in India tardarono a dare credito al nostro gesuita Matteo Ricci (1552-1610) che aveva identificato il Catai con la Cina e, già stabilitosi a Pechino, ne aveva dato conferma con la notizia del puntuale arrivo ai confini della Cina del fratello laico gesuita portoghese Bento de Góis (1568-1607), messosi in viaggio da Agra nel 1602 appunto per scoprire il Catai.
I portoghesi continuarono con perseveranza a cercare il Catai in direzione dell’Himalaya, e nel 1626 fece scalpore e confusione il volumetto dal titolo Novo descobrimento do Gram Catayo, ou Reinos de Tibet, pello P. António de Andrade da Companhia de Jesus, portuguez, no anno del 1624, che fu subito tradotto anche in italiano e pubblicato l’anno dopo a Roma col titolo La scoperta del Gran Cataio ovvero Regno del Tibet, fatta dal P. Antonio de Andrada, portoghese, nel 1624.
Naturalmente si trattava di un falso annuncio. ma la missione di António de Andrade (1580-1634) non fu di poca importanza storica, essendo la prima a spingersi fin nell’Himālaya e a stabilire sia pure effimere missioni gesuitiche in territorio tibetano.
Negli stessi anni, la ricerca del Catai faceva raggiungere il Tibet da altri due gesuiti portoghesi, Estêvão Cacella (1585-1630) e João Cabral (1599-1669), i quali si mettevano in viaggio dal Bengala e attraversavano il Bhutan, dove mettevano piede da primi europei. Quindi proseguivano separatamente per Shigatse, sede del Panchen Lama e del grande monastero del Tashilhunpo. Colà Cacella si tratteneva per circa otto mesi e scriveva dal monastero di Chagri al superiore di Cochin, sulla costa del Malabar, una lunga lettera, conosciuta come la “Relacao”, ragguagliando sul lungo e avventuroso viaggio ancora in corso. Riferiva pure della vana ricerca fatta del Catai, ignoto a tutti nell’area, mentre sentiva parlare di un famoso regno non lontano, dal nome di Xembala [dal sanscrito Sham-ba-la], che era un luogo di felicità e di pace perpetua. Probabilmente era quello il Catai…
Fu questo Shambala una nuova fonte di ispirazione per la ricerca di una Terra Pura sperduta fra le montagne del Tibet. Non sembra risulti che i gesuiti portoghesi ne parlassero successivamente. Fu risaputo con buona pace di tutti che il Catai era inconfutabilmente la Cina, e le missioni per il Tibet, quando furono riprese al primo Settecento, non ebbero più l’obiettivo di cercare il Catai; e la missione nel Tibet, sotto patronato portoghese, finì con l’annoverare un unico gesuita a Lhasa e in tutto il Tibet: il menzionato Ippolito Desideri (1684-1733), grande studioso di elevata statura intellettuale, che per le sue informazioni di fonte esclusivamente tibetana, dovette mancare occasione di venire all’orecchio della tradizione buddhista indiana di Shambala, e neppure dovettero avere tale opportunità i successivi missionari cappuccini italiani cui fu affidata la missione nel Tibet, anche se alcuni di loro vissero e operarono in ambiente culturale indiano.
Shambala tornò comunque alla ribalta nel primo Novecento e prima ancora dello Shangri di James Hilton, che sembra tra l’altro adombrasse proprio la figura di Ippolito Desideri in un personaggio del suo romanzo fatta impersonare però da un cappuccino francese. Dagli anni Venti fu in viaggio e in esplorazione ai confini sino-tibetani l’americano di origini austriache Joseph F. Rock (1884-1962) che pubblicava per molti anni articoli di grande suggestione sul National Geographic Magazine, mentre nel 1930 il russo-statunitense Nicholas Roerich (1874-1947), eclettica personalità di grande viaggiatore in Asia, scrittore e artista di vaglio, pubblicava Shambala: in Search of the new Era, un libro diventato famoso, tradotto anche in Italia sia pure solo nel 1997 col titolo Shambala, la risplendente, a cura di Daniela Muggia. A Rock, invece, Jim Goodman dedicava nel 2006 il libro Joseph F. Rock and his Shangri-la, pubblicato dalla Caravan Press di Hong Kong. Amico ed estimatore di Tucci, Rock affidava dagli anni Cinquanta la pubblicazione di gran parte della sua produzione scientifica alla “Serie Orientale Roma”, diretta da Tucci presso l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (poi IsIAO) di Roma.
Sulla storia della Shangri La cinese una lettura d’obbligo è il bell’articolo on-line di Daniele Cologna “Reinventando Shangri La. La cultura tibetana nell’immaginario cinese contemporaneo”, pubblicato originariamente da Mondo cinese (n. 147, 2011, pp. 199-212).
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
24 marzo 2014
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