LA SCOPERTA DELLA CINA NEOLITICA
di Adolfo Tamburello*
Napoli, 13 dic. - Dopo i primi reperti relativi al Sinantropo e genericamente al Paleolitico, l’archeologia del primo Novecento faceva luce su fasi più recenti dell'Età della Pietra. Prime missioni scientifiche esplorarono aree desertiche dell’Asia centrale e della Cina occidentale, ove primi indizi suggerivano che le sabbie avessero custodito i resti di una remota umanità vissuta prima e dopo l'epoca ‘diluviale’, quando ancora il processo di saharificazione non vi aveva reso difficili le condizioni di vita.
In Mongolia operarono le American Central Asiatic Expeditions del 1922-1930; in Mongolia e nel Xinjiang le Sino-Swedish Expeditions del 1927-1935. Le esplorazioni fruttarono la scoperta delle culture dei cosiddetti "abitatori delle dune" di epoca mesolitica e neolitica, vissuti dagli inizi dell'Olocene. Un'industria microlitica di punte di pietra e strumenti d'osso, anch'essi di minuscole dimensioni, identificava i discendenti di cacciatori paleolitici che, dopo la scomparsa della grande fauna glaciale, si erano adeguati, come in altre regioni, a regimi di caccia di animali di minor taglia. Altre ricerche estesero alla Manciuria la testimonianza di "culture microlitiche": la località di Djalai-nor, individuata nel 1928 dall'ingegnere minerario russo V.I. Tolmatcheff, e quella di Guxiangtun, diventarono, con le ricerche proseguite dai giapponesi, le stazioni ‘guida’ di un mesolitico di cacciatori e pescatori dei laghi.
Intanto provenivano indicazioni che anche nella Cina protoagraria l'Età della Pietra avesse conosciuto nelle ultime fasi un importante rinnovamento con la conoscenza delle tecniche di levigazione della pietra e della ceramica. Specialmente quest'ultima indirizzò alla scoperta della civiltà neolitica. Dal 1920 J.G. Andersson (1874-1960), con la collaborazione di ricercatori cinesi, aveva raccolto centinaia di frammenti di vasellame, di cui una parte proveniva da una località nota come Yangshao, un villaggio dell'Honan occidentale, in cui lo studioso svedese compì un sopraluogo preliminare. Frammenti di ceramica dipinta che presentavano singolari analogie con quelli già riesumati nel Turkestan russo portarono attraverso successivi scavi stratigrafici alla scoperta di una cultura neolitica, che prese appunto il nome di Yangshao o della "ceramica rossa", per la sua caratteristica produzione di vasellame color cremisi. Andersson, sempre più convinto della provenienza occidentale di tale cultura, estese le ricerche fino al Gansu, che si profilava come il corridoio di accesso alla Cina dall'Asia centrale. Contadini delle colline di Banshan, venuti a sapere che si aggirava nella zona un acquirente di vasellame del tipo di quello che disseppellivano arando o zappando, presero a scavare vari fondi con tale lena da sconvolgere, come fu appurato più tardi, un'intera necropoli neolitica.
Intanto, a Longshan, nello Shandong, era stata scoperta nel 1928 un’altra località neolitica e il suo scavo sistematico, intrapreso nel 1930 dai ricercatori dell'Academia Sinica, restituì una caratteristica "ceramica nera". Quindi, dal 1931, altre testimonianze venivano da Anyang ove la stessa Accademia aveva intrapreso lo scavo di strati Shang. La locale cultura di Xiaotun o, come fu detta, della "ceramica grigia", per la prevalenza di un vasellame di tale colore di cottura, fu per allora, in ordine di tempo, l'ultima grossa scoperta del Neolitico cinese, mentre la sequenza stratigrafica che fu localmente osservata con lo scavo di Hougang cominciava apparentemente ad identificare una successione Yangshao, Longshan, Xiaotun, fra la metà del III e la metà del II millennio a.C.
Con gli scavi di Xiaotun le ricerche si collegarono alle circostanze per le quali le "ossa di drago" avevano guidato ad An-yang. Dopo primi studi sulle iscrizioni condotti da Liu E e Sun Ijang, si era associato alle ricerche, fin dal 1904, l'archeologo Lo Chenyu (1866-1960), il quale annunciava che i reperti altro non erano che le ossa oracolari della corte reale Shang di Yin e costituivano materiale di primaria importanza storiografica, tenuto conto che neppure gli antichi storici cinesi ne avevano potuto disporre. Egli patrocinò personalmente una serie di scavi e curò pubblicazioni sul progresso delle scoperte, illustrandole con impeccabili riproduzioni in litografia e collotipia, che fornirono efficace materiale di studio e di riscontro anche all'estero.
Frattanto la notizia della scoperta delle ossa oracolari aveva fatto il giro del mondo e la loro conoscenza aveva dissolto i residui scetticismi, specie dopo che un missionario canadese, J.M. Menzies, in servizio religioso ad Anyang, si era personalmente imbattuto in alcune ossa, cominciando a studiarle e pubblicando infine l'opera Oracle Records from the Waste of Yin. Collezioni che si venivano formando divennero oggetto dell'interesse di un numero rapidamente crescente di studiosi, dal giapponese T. Harashi allo svedese B. Karlgren il cui studio filologico delle iscrizioni su ossa e bronzi per la ricostruzione del cinese arcaico culminava nel 1944 con l'opera Grammata Serica e quindi Grammata Serica Recensa (Bulletin of the Museum of Far Eastern Antiquities, 29, 1957).
Wang Guowei (1877-1927), una delle figure dominanti del mondo intellettuale, pur morendo prima che le scoperte archeologiche gli potessero mettere a disposizione molti nuovi materiali, aveva elaborato una ricostruzione storica delle epoche Yin e Zhou che, nonostante il taglio ancora tradizionale dello studio, aveva fra l'altro il merito di collazionare le geneaologie dei re Shang, quali si leggevano sullo Shiji, con quelle che potevano desumersi dalle prime ossa oracolari scoperte, concludendo sulla sostanziale concordanza delle due fonti. Un'attendibilità storica veniva così restituita a Sima Qian e a quasi tutta l'antica storiografia cinese, contro il pregiudizio di molti studiosi delle nuove generazioni che, al motto ‘dateci le prove!’, avevano quasi fatto un punto fermo della loro modernità metodologica nel respingere la storicità delle prime dinastie (Xia, Shang e persino Zhou). Le conferme che cominciavano ad aversi in merito a tante tradizioni storiche avrebbero a loro volta incentivato nuove ricerche in senso archeologico con un seguito crescente di credibilità e di attesa. A breve tempo Guo Mojo (1892-1978) si sarebbe servito anche degli studi sulle ossa oracolari per impostare una ricerca storica di indirizzo economico-sociale; Dong Zuobin (1895-1963) non solo procedette nel lavoro di decifrazione delle iscrizioni, ma dagli anni Trenta condusse un nuovo studio linguistico sul cinese dalle età più antiche e contribuì a ricostruire la storia della scrittura in Cina nella sua composizione strutturale e nelle sue origini non puramente pittografiche.
Gli scavi finalmente intrapresi a Xiaotun dall'Academia Sinica nel 1928, sotto la direzione di Li Ji (1896-1979), rimasto annoverato fra i maggiori pionieri dell'archeologia cinese di scuola occidentale, non tardarono a dare risultati eccellenti: depositi e fosse con decine di migliaia di ossa e piastroni di tartaruga usati per le divinazioni, fondazioni di edifici, pozzi per scorte alimentari.
Complessivamente furono messi in luce i resti di un'antica città, comprese le fondamenta in terra battuta di alcune grandi strutture architettoniche e le tracce di cruenti riti di fondazione. Le tombe della vicina necropoli, con i loro vasti e profondi ipogei cui si accedeva attraverso ripide gradinate, restituirono anch'esse lugubri prove di sacrifici d'accompagnamento umani e animali, insieme con ricchi corredi: oggetti di ceramica, pietra e bronzo, sfuggiti ai saccheggi di cui i sepolcri apparivano essere stati ripetutamente oggetto. Gli scavi si protrassero fino al 1937 fra difficoltà d'ogni genere, essendo la zona battuta dal banditismo e dovendosi periodicamente superare gli ostacoli frapposti dai maggiorenti locali e dagli stessi contadini, il cui ostruzionismo mirava a riservarsi le poche risorse del terreno utilizzabili nelle annate più magre. Le scoperte misero in luce un'eccezionale documentazione monumentale che attrasse l'interesse di tutto il mondo scientifico, proponendo sotto nuova luce le origini della civiltà cinese. Dopo i primi resoconti degli scavi, lo stesso Li Ji avrebbe pubblicato il suo famoso The Beginning of the Chinese Civilization (Seattle, 1957). Frattanto, ricerche e studi, con lavori relativi ad altre fasi, avevano trovato collocazione su nuove riviste, quali, dal 1928, il Bulletin of the Institute of History and Philosophy af Academia Sinica, e, fra le occidentali, oltre quelle giapponesi, il Bulletin of the Museum of Far Eastern Antiquities di Stoccolma, il Journal of the American Oriental Society di New Haven, il Journal of the Royal Asiatic Society di Londra e infine Monumenta Serica - Journal of Oriental Studies of the Catholic University of Peking.
L’archeologia cinese cominciava così a calcare il palcoscenico dell’archeologia mondiale.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
13 dicembre 2013
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