di Adolfo Tamburello*
Napoli, 7 nov.- La farmacopea cinese ha fatto uso per secoli di polveri ottenute da ossa umane e animali esumate; le credenze popolari volevano che i draghi le espellessero durante la crescita e rimanessero sepolte nella terra per la feracità del suolo e la salute degli uomini. Avevano il nome di longgu (“ossa di drago”). In realtà si trattava di ossa di animali preistorici o semplicemente antichi, in specie bovini e cervidi, sebbene figurassero anche corazze e scaglie di tartaruga e si sarebbero trovati fossili, compresi denti e ossa di ominidi. Fortuitamente, una serie di esemplari finì nelle mani di studiosi che dal 1899 fermarono l'attenzione sugli enigmatici segni che affioravano su alcune ossa e cominciarono a farne oggetto di studio. Erano le testimonianze della pratica della scapulimanzia, una tecnica divinatoria che si serviva in particolare delle scapole di animali e consisteva nell'interpretazione delle screpolature che si formavano sulle ossa esponendole al fuoco. Molti segni apparivano come la trascrizione delle domande dei sacerdoti e delle risposte degli oracoli, eseguita in una scrittura ancora in gran parte ignota e che cominciò solo coi primi del Novecento a essere sistematicamente decifrata col lavoro pionieristico di Liu E e Wang Yirong, quest’ultimo un epigrafista specializzato in iscrizioni su bronzi.
Nasceva così una nuova branca degli studi archeologici che avrebbe avuto il nome di jiagu xue, letteralmente "studi di ossa e scaglie", mentre con il nome di jiagu wen "scrittura, iscrizioni su ossa e scaglie", veniva conosciuta una forma di notazione grafica anteriore alla scrittura su bronzo o pietra, che aveva fino ad allora fornito il grosso della documentazione relativa alla protostoria della scrittura in Cina. Il lavoro era però complicato e scoraggiato sia dall'incredulità degli stessi storici cinesi che, imbevuti di idee positivistiche europee, erano allora pronti a relegare definitivamente nella leggenda il regno Shang (annoverato dalla tradizione come la seconda dinastia cinese), sia dal gran numero di ossa con iscrizioni false che cominciavano a circolare e a invadere il mercato antiquario, confortando il sospetto che in ben pochi casi potesse disporsi di materiale autentico e tale da meritare studi attendibili. H.G. Creel, ancora nel 1938, commentava: “Ho visto una grande collezione di presunte ossa oracolari, acquistate da un museo per varie migliaia di dollari, che consisteva in gran parte di falsi. Includevano perfino i circoletti usati come punti nel cinese moderno!”.
Commissionavano incauti acquisti autorevoli istituzioni come il British Museum di Londra e il Field Museum di Chicago, e la lista degli acquirenti ingannati sarebbe lunga. Comunque, fu importante che, accanto a molti falsi, vi fossero anche pezzi autentici, che col tempo fugavano lo scetticismo e documentavano una nuova pagina dell'epigrafia cinese, allargando le testimonianze sull'antecedente carattere non solo pittografico della scrittura. Presto localizzata, l'area di provenienza delle ossa oracolari fu identificata nell'antica città di Yin, nei pressi del villaggio moderno di Xiaotun e della città di Anyang, di cui aveva già parlato lo storico Sima Qian verso la fine del II sec. a.C. nel suo Shiji (“Memorie storiche” o “Memorie di uno storico”).
L’Italia annovera in Riccardo Fracasso dell’Università di Venezia un riconosciuto studioso occidentale di “giaguologia”.
Mentre le "ossa di drago" davano l'imprevista testimonianza di un capitolo della storia cinese rimasto ancora oscuro, altre "ossa di drago" informavano su una ben più remota antichità della Cina. Questa seconda scoperta spettava, però, a studiosi occidentali.
Durante una permanenza in Cina ai primi anni del Novecento, tale A. Haberer aveva preso interesse per le ossa ammonticchiate nelle farmacie cinesi e, constatandovi la presenza di fossili, ne raccoglieva un buon numero che affidava allo studio del paleontologo M. Schlösser. Qualche tempo dopo, una relazione che aveva vasta risonanza fra i circoli scientifici, segnalava che uno dei fossili fosse il dente di un uomo primitivo. Ancora dopo qualche decennio altri fossili raccolti nelle farmacie si rivelavano fonti importanti per la ricerca paleontologica e paleoantropologica. Fra i reperti più clamorosi figuravano tre grossi denti che il paleontologo G. H. von Koenigswald attribuiva a una specie estinta di scimmia gigante che battezzava col nome di Gigantopithecus e di cui sottolineava le singolari somiglianze con un ominide.
Fu questa la pagina di studi che precorreva e affiancava la nascita dell’archeologia preistorica della Cina, sollevando le istanze per ricerche meno occasionali, basate su dirette indagini sul terreno ed esami dei reperti.
A partire dal 1918, sulle tracce di ritrovamenti di altre "ossa di drago" presso una collina del villaggio di Zhoukoudian, a meno di una cinquantina di chilometri da Pechino, il geologo svedese J.G. Anderson conduceva in collaborazione col paleontologo O. Zdansky, una serie di scavi che portavano alla luce materiale litico scheggiato, fossili di mammiferi e infine due denti simili a quelli che avevano consentito a Schlösser di ipotizzare l'esistenza di un paleouomo. Stimolato da questi primi reperti, il paleontologo D. Black, in servizio presso l'Università di Pechino, varò, in concerto con Andersson, il programma di una campagna di scavi allestita per il 1927. Si associò alle ricerche il Peking Union Medical College, mentre la Fondazione Rockfeller stanziò i fondi necessari per la missione. Ne fu affidata la soprintendenza allo stesso Black e la direzione dei lavori all'antropologo svedese B. Bohlin. Oltre a un dente uguale a quelli già esumati, furono trovate tracce di focolari e alcune ossa. In questa occasione Black parlò già di un Sinanthropus pekinensis (nome che sarebbe stato reso in cinese nella forma Beijing yuanren, letteralmente l'"uomo primitivo di Pechino"); ma si dovette aspettare il 1929 perché un giovane paleontologo cinese, Pei Wenzhong, in una serie di sorprendenti scoperte, esumasse il primo cranio di Sinantropo, cui negli anni successivi se ne aggiungevano altri con caratteristiche antropiche piuttosto evolute.
Nel 1934 Black moriva e fu chiamato a succedergli l'antropologo F. Weidenreich che sovrintese ai lavori per alcuni anni, portando a un recupero di fossili per un totale approssimativo di quarantacinque sinantropi. Il materiale litico rinvenuto associato rimase piuttosto povero e depose per un'attrezzatura industriale poco sviluppata se messa a confronto con quella delle culture paleolitiche di altre regioni su cui era fatta luce. Il materiale non consentiva di essere classificato oltre un Paleolitico inferiore, tanto più che gli strati stessi dei reperti non sembravano successivi al Pleistocene inferiore. Antropologicamente il sinantropo era classificato in sequenza evolutiva fra il Pithecanthropus erectus e l'Homo neanderthalensis. Il Pithecanthropus erectus era stato ricostruito attraverso alcuni fossili scoperti in Indonesia, nell'isola di Giava, tra il 1890 ed il 1897, da E. Dubois. Lo studioso lo aveva chiamato "pitecantropo" o "uomo scimmia" per i caratteri simultaneamente pitecoidi e umanoidi dello scheletro; "eretto" per il tipico femore caratteristico dell'uomo, conformato per la stazione eretta. Successivi reperti, avutisi dal 1936, furono oggetto di studio da parte di von Koenigswald e Weidenreich, e messi in relazione col Sinantropo. Quest'ultimo, oltre ad apparire più recente ed evoluto rispetto al pitecantropo, pareva presentare già riconoscibili caratteristiche mongolidi, pur in uno stadio di evoluzione precedente l'Uomo di Neanderthal, posto in Europa a uno stadio anteriore all'Homo sapiens.
Intanto, dal 1933-34, erano scoperte tracce di un più evoluto orizzonte paleolitico con lo scavo della cosiddetta "grotta superiore" di Zhoukoudian, che restituì utensili su pietra e ossa del Paleolitico superiore e fossili umani del Pleistocene superiore. Questi ultimi presentavano un complesso quadro di mescolanza razziale, dal momento che sembrava potervisi distinguere almeno tre distinti tipi umani: uno Crô-Magnon, uno "melanesiano" e uno "eschimese". Nel complesso, Zhoukoudian dava la parvenza di una vera e propria fucina di ominazione.
Poi fu la guerra. Già nel 1937, con l'invasione giapponese, molte ricerche archeologiche furono sospese. A Zhoukoudian i lavori si protrassero fino al 1939. Nel 1941 fu tentato di mettere in salvo fossili e utensili negli Stati Uniti, ma le casse non giunsero mai a destinazione, e si volle che fossero cadute in mani giapponesi. Un'inchiesta condotta dopo la guerra non approdò a nulla.
Con questa archeologia del Paleolitico si erano finalmente ottenute le prime prove che anche la Cina aveva avuto un popolamento umano dal Quaternario antico. Fino agli inizi del secolo aveva dominato il pregiudizio che la Cina non fosse antica come le sue storie avevano voluto far credere. Persino uno studioso della levatura di un B. Laufer aveva affermato che nulla provava in realtà che la Cina avesse conosciuto un'Età della Pietra.
Sulla ‘non antichità’ della Cina l'Europa aveva condotto una querelle da quasi tre secoli. I missionari gesuiti, dal Seicento, avevano rinnovato all'Europa l'immagine del favoloso ‘Catai’ di Marco Polo, rivelando così la Cina nella sua mirabile civiltà e nelle sue tradizioni di sapienza e saggezza. Una parte della cultura cattolica europea aveva quindi temuto che la civiltà cinese potesse minacciare di oscurare quella europea della rivelazione giudaico-cristiana e che una priorità dello sviluppo storico cinese su quello europeo scardinasse i pilastri della storia occidentale costituiti dalla cronologia biblica. Matteo Ricci, fra i primi, aveva parlato di storie cinesi "di quattro milia anni addietro". All'incredulità nelle "fole gesuitiche" era seguita la riprovazione che fossero proposte ancora fantastiche età "pre-adamitiche", quali erano state per esempio nell'antichità quelle degli Egizi e dei Caldei.
Negli anni del secondo conflitto mondiale, uno studio stratigrafico d'insieme permetteva al paletnologo H. L. Movius di proporre che il Sinantropo, durante una prima fase dell'Età della Pietra risalente al Pleistocene medio, si fosse evoluto intorno ai 500 mila anni or sono; il Weidenreich, preso dal problema di stabilire una relazione su linee evolutive fra il Gigantopithecus della Cina meridionale (frattanto postulato da von Koenigswald) e il Sinanthropus, partendo dall’assunto che nei processi evolutivi le forme animali tendessero dal gigantismo al nanismo, vedeva nel Gigantopithecus un ominide di grandi proporzioni in evoluzione in senso umano; tesi confutata dall'antropologo H. Weinert, il quale orientava il problema nel senso che il Gigantopithecus fosse da vedere come un ramo collaterale del Sinanthropus senza più capacità di evoluzione, perdutasi per ragioni essenzialmente climatico-ambientali, a causa dell’habitat meridionale in cui sarebbe rimasto relegato. Sul problema del complesso quadro razziale documentato dalla grotta superiore di Zhoukoudian, Weidenreich si espresse notando nel suo Dai giganti agli uomini (Pavia 1956) “il fatto sorprendente non è dato dalla presenza di tipi paleolitici dell'uomo moderno somiglianti a tipi razziali attuali, ma il trovarli insieme e in una sola famiglia, considerando che questi tipi vivono oggi in regioni molto distanti tra loro”.
7 novembre 2013
*Adolfo Tamburello gia' professore ordinario di Storia e Civilta' dell'Estremo Oriente all'Universita' degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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