di Adolfo Tamburello *
Napoli, 22 ott.- Dopo che gli Han ebbero riunificato l'impero dal 201 a.C., varie generazioni si impegnarono in un arduo lavoro di recupero e ricomposizione di testi. In queste circostanze ebbe inizio nel II sec. a.C. un'operazione che già potrebbe definirsi 'archeologica' in senso moderno.
Si tramanda che un certo numero di manoscritti fosse trovato persino riposto in un muro dell'antica casa di Confucio, giacché da secoli la cultura aveva dovuto difendersi da depredamenti, censure e roghi.
Una vasta ricognizione in tutto l'impero fruttò il ritrovamento di molte opere, fino alla fortuita scoperta di una copia dei cosiddetti "Annali" o "Libri su bambù" (Zhushu Jinian), in una tomba tumulata nel 291 a.C. contenente un gran numero di manoscritti. Nel 281 d.C. la tomba era violata da uno scavatore clandestino ma uno zelante funzionario, messosi sulle tracce dell'uomo, scongiurava che quanto non interessasse direttamente un cacciatore di tesori andasse irreparabilmente perduto. I testi recuperati furono collazionati e ricostruiti e di ogni opera si cercò di curare un'editio princeps. La fedeltà agli originali lasciava in molti casi a desiderare. Di varie opere circolavano già da tempo versioni difformi. Fra l'altro, il primo imperatore Qin, nell'intento di realizzare un'immediata unificazione della Cina, aveva abrogato le scritture che, con molte varianti, erano entrate in uso nelle singole regioni, imponendo una nuova scrittura comune a tutto l'impero. Rapidamente si era cominciato a ritrascrivere il patrimonio letterario e quest'opera continuava fino a che un numero sempre minore di letterati e amanuensi aveva familiarità con le scritture pre-Qin. Le trascrizioni o le edizioni commentate soggiacevano a modifiche, interpolazioni, letture 'interpretative'. Queste ultime non mancavano neppure di essere 'politiche' o di comodo nella costante preoccupazione di un'ortodossia culturale: l'epoca Han (206 a.C.-220 d.C.) operava pesantemente nel "canonizzare" il patrimonio letterario cinese. Persino i menzionati "Annali su bambù" sarebbero stati nei secoli dovutamente rimaneggiati affinché concordassero con le tradizioni che si erano ormai codificate; e ancora nel nostro secolo si pensava che ben poche opere si fossero salvate da edulcorazioni e interpolazioni, tanto che Marcel Granet scriveva nel 1929, sia pure con eccessivo pessimismo: "Tutta la storia della Cina antica si basa su un sistema di falsi a un tempo ingenui e sapienti. Per il momento non possediamo alcun sistema di filtro e può sembrare che, ridotta alle sue sole risorse, la critica filologica debba metter capo a risultati negativi". E ancora: "Il problema delle origini cinesi rimane intero. Ben poca speranza si può avere nello studio dei testi, mentre ci si può aspettare molto dall'archeologia e soprattutto dall'archelogia preistorica".
In realtà è stato fatto molto in un campo e nell'altro, e tanti ritrovamenti di manoscritti hanno modificato o stanno modificando le precedenti conoscenze, permettendo di appurare l'entità degli interventi Han e delle epoche successive sul patrimonio letterario pre-Qin. Non mancarono tuttavia ricostruzioni fedeli e, nell'ardua impresa di ricomposizione dell'intero corpus bibliografico, non è dimenticata l'opera di due insigni archivisti imperiali, Liu Xiang e il figlio Liu Xin che, fra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., catalogarono e descrissero tutti i manoscritti raccolti nella nuova biblioteca di corte. Nacquero così i primi repertori bibliografici cinesi che rimasero fra i più importanti strumenti attraverso i quali sarebbe stata trasmessa, fino all'età moderna, la conoscenza dell'imponente apparato filologico della Cina antica. Parallelamente furono coltivati i primi studi lessicografici ed epigrafici e intorno al 100 d.C. apparve un dizionario, lo Shuowen Jiezi di Xu Shen, che fornì i primi ragguagli sulle origini, sia pure leggendarie, della scrittura in Cina e i graduali sviluppi intercorsi dagli antichi stili "sigillari". Anche le fonti di questi studi furono costituite da vecchie compilazioni - come lo Shi Zhou che, secondo lo Shuowen, aveva già codificato un lessico di novemila caratteri - nonché da riscoperti materiali epigrafici su pietre e bronzi.
Il momento culminante dell'opera di ricostruzione della letteratura pre-Qin può essere fissato tra il 175 ed il 183 d.C. quando fu compiuta la monumentale impresa di incidere su lastre di pietra l'intero corpo dei 'classici' allo scopo, in seguito risultato anch'esso vano, di prevenire ulteriori perdite. All'opera presiedette il letterato e calligrafo Cai Yung, il quale aveva ottenuto dall'imperatore Ling l'autorizzazione ad istituire un'accademia di calligrafia per il reclutamento e l'addestramento degli scribi cui doveva essere affidato l'arduo lavoro di incisione dei testi.
Il patrocinio imperiale svolse un ruolo essenziale nell'intera opera di ricomposizione del patrimonio culturale cinese e gli stessi sovrani Han divennero entusiastici raccoglitori di manoscritti e di opere d'arte, instaurando una tradizione di collezionismo imperiale che doveva diventare caratteristica di tutte le corti cinesi attraverso la storia. In verità, anche di qualche antico sovrano dell'epoca pre-imperiale, si era tramandata la passione per l'arte e, stando ad esempio allo Zuozhuan, il re Fuchai, del V sec. a.C., "ovunque si fermasse, doveva avere torri, terrazze, banchine, specchi d'acqua. Inoltre collezionava tutto ciò che era prezioso ed esotico...".
Per l'epoca Han e in particolare con Mingdi (r. 58-76 d.C.), un critico d'arte del sec. IX avrebbe ricordato che alla capitale "l'arte di tutto l'impero era ammassata come nuvole" e lo Hou Hanshu, la "Storia degli Han Posteriori", informa che un'antica torre, eretta durante il I millennio a.C., all'epoca Zhou, era allora adibita a deposito di libri, dipinti, documenti, oggetti d'arte e "curiosità rare", ma andò distrutta con l'incendio di Luo-yang nel 185 d.C.
La concentrazione di grandi tesori, se era l'espressione di un interesse profondo per le arti e la cultura e prefigurava musei e biblioteche, aveva il risvolto negativo di provocare ingenti mutilazioni del patrimonio culturale e artistico all'intervento di calamità, ivi comprese le invasioni e i saccheggi che la storia cinese periodicamente registrava. Sappiamo che già nel 190 d.C., quando Luoyang fu espugnata durante una guerra civile, i dipinti su seta erano utilizzati per farne tende e zaini; fu tentato di trarne in salvo i rimanenti, caricandoli su settanta carri, ma durante il trasporto ne andava perduta una metà. Il collezionismo ebbe però l'effetto di far prendere coscienza non solo dei valori letterari e artistici della cultura, ma anche di quelli tecnici, la cui razionalizzazione era preliminare per il progresso dal metodo empirico a quello scientifico. Lo studio delle epigrafi, la decifrazione delle iscrizioni, specie sui bronzi, trasferì l'attenzione dei letterati sugli oggetti stessi, le forme, gli stili, le loro destinazioni. Fu impostato uno studio tipologico delle arti antiche e la produzione della dinastia Zhou (c. 1111-256 a.C.), che i letterati ormai valutavano come l'epoca formativa della cultura cinese, cominciò a suscitare un interesse anche extra-letterario, che si concentrò sui bronzi e le giade, favorendo anche un precoce antiquariato pervaso di ritualismo religioso, stante il valore sacrale o altamente simbolico che era attribuito agli oggetti. Collateralmente, la letteratura Zhou forniva i primi ragguagli sulle arti e, tramite i dati offerti dalle iscrizioni su bronzi, pietre, terrecotte, lasciava un lessico rimasto alla base delle terminologie dell'arte cinese, oltre a tramandare una serie di notizie utilizzate dalla trattatistica d'arte e che, in epoca contemporanea, sono servite a una più organica storiografia artistica, permettendo di integrare la documentazione monumentale con quella letteraria.
Osservazioni dirette di architetture, città e antiche rovine cominciarono a essere utilizzate dall'epoca Han per le ricostruzioni storiche. Sima Qian, che si accingeva verso la fine del II sec. a.C. a scrivere lo Shiji, cioè le "memorie" storiche, descrisse quanto rimaneva ai suoi giorni dell'antica capitale Yin della dinastia Shang, presso l'attuale Anyang. I moderni scavi archeologici hanno con-fermato l'accuratezza di questa e altre descrizioni, e comprensibilmente l'autore dello Shiji è stato annoverato il 'padre' dell'archeologia cinese. A Sima Qian si può, fra l'altro, ascrivere il merito che i numerosi viaggi da lui compiuti per visitare antiche località e rovine erano dettati dal proposito di raccogliere dati per sostanziare una storia che, per il periodo anteriore al sec. IX a.C., era vistosamente diluita nel leggendario o addirittura nel mitico dalle fonti letterarie dell'epoca. Era questo un atteggiamento che già preludeva a concepire l''archeologia' come una disciplina di suffragio alla storia, cioè una disciplina ausiliare o sussidiaria, come diremmo oggi.
Lo Shiji non rimase l'opera isolata di uno studioso. Le generazioni di intellettuali che seguirono edificarono un ingente corpus storiografico, curarono opere di diaristica, descrizioni di viaggi e località, le quali inaugurarono persino una geografia storica e si sarebbero rivelate preziose guide per la ricerca moderna, orientando le indagini anche fuori della stessa Cina, permettendo di identificare e datare monumenti e culture. Nel secolo scorso, Giuseppe Tucci, fra gli altri, si è fruttuosamente avvalso delle fonti cinesi per esplorare alcune regioni dell'Asia, e le campagne di scavo italiane condotte nello Swât, in Pakistan, si sono rivelate una delle tante conferme dell'opera di rilevamento monumentale e topografico compiuta nei secoli dai Cinesi.
Specifici lavori pionieristici dal punto di vista archeologico erano presto condotti nei settori delle arti, delle tecniche, dell'epigrafia. Durante il periodo dei Tre Regni e delle Sei Dinastie o delle "dinastie del Sud e del Nord" (220-589) apparvero i primi veri e propri trattati epigrafici. Lo sviluppo degli studi era continuamente favorito dalla messa a punto di sistemi di riproduzione di epigrafi e rilievi. In questo si rivelava importante la precoce invenzione della carta che metteva a disposizione un materiale poco costoso e idoneo non solo alla scrittura. Era scoperto infatti che i fogli, preventivamente bagnati, potevano farsi aderire alle lastre e penetrare nelle incisioni, in modo che poi, con un tampone inchiostrato, si annerissero solo le parti in superficie, lasciando in bianco disegni e caratteri incisi o, al contrario, nel caso di rilievi, lasciando in bianco il fondo. Il decalco dava la possibilità ad antiquari e collezionisti di disporre di un vasto materiale documentario di riproduzione degli stili di scrittura e dei repertori figurativi di stele e rilievi. Parallelamente la pittura cominciò ad essere oggetto di studio e se ne rintracciò la storia e codificò l'estetica.
Con la dinastia Sui (589-618), ricostitutrice dell'impero cinese, dopo che per secoli le regioni settentrionali avevano vissuto nell'orbita di dinastie "barbariche", la riproposta di puri valori nazionali rinvigoriva le ricerche sull'antica tradizione culturale; era allora compilata una grande enciclopedia dello scibile, il Pei-tang shu-zhao, "Gli estratti degli scritti della sala del Nord", una delle opere monumentali con cui trovava risistemazione il corpus del pensiero cinese. Quindi, sotto la dinastia Tang (618-907), corti imperiali e principesche, circoli culturali e circoli d'arte, compreso il primo nucleo dell'istituzione che sarebbe stata conosciuta come l'Accademia Hanlin, diventavano fecondi centri di studio e raccolta di opere d'arte, di documenti e libri. Un'attività corrispondente e di crescente prestigio era svolta dai monasteri. Ma la secolare patrimonializzazione di beni, opere d'arte e tesori da parte degli ordini ecclesiastici, da quelli buddhisti a quelli manichei, nestoriani, musulmani, provocava, dall'843, un'estesa persecuzione religiosa, per cui molte istituzioni erano chiuse e le loro sedi demolite. Erano abbattute campane, distrutte statue, bruciati dipinti, asportati oggetti liturgici e altri corredi. Utilizzando parte del metallo recuperato, lo stato fuse monete e attrezzi agricoli. Gli oggetti d'oro e d'argento, ridotti in lingotti o verghe, furono immessi nel tesoro imperiale. Fu una delle tante distruzioni del patrimonio artistico cinese, che si aggiunse a quelle già ripetutamente perpetratesi, precedendone di altrettanto calamitose. Essa fu giudicata a tal punto grave per le perdite che causava in tutti i campi dell'arte che, all'indomani di essa, Zhang Yenyuan, appartenente a una famiglia di illustri collezionisti ed esperti conoscitori, si impegnava a scrivere il Litai minghuaji, per lasciare almeno "memoria dei dipinti famosi delle varie dinastie". Esordiva una trattatistica d'arte e d'antiquariato che, durante i successivi periodi delle "Cinque Dinastie" (907-960) e dei Song (960-1279), procedeva parallelamente e per mutue influenze con l'affermazione di un neoclassicismo, sostenuto da una ponderosa indagine filologica e di decifrazione dei testi, che proponeva, fra l'altro, una rilettura dei classici secondo quello che è stato definito il neo-confucianesimo.
*Adolfo Tamburello gia' professore ordinario di Storia e Civilta' dell'Estremo Oriente all'Universita' degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
@Riproduzione riservata