Roma, 05 lug. - E’ dai tempi di Mao Zedong, vale a dire da quando la Repubblica popolare cinese è stata fondata, che il paese combatte contro povertà e, soprattutto, disuguaglianza. Dal punto di vista della lotta alla povertà sono stati raggiunti risultati straordinari. Guardiamo le cifre, senza retorica: dal 1980 a oggi la Cina ha 680 milioni di poveri in meno. Meno buone, anzi, pessime, le statistiche sulla disuguaglianza: il coefficiente di Gini, che oscilla tra zero e uno a seconda che la concentrazione dei redditi sia minima o massima, è passato dallo 0,28 nel 1981 al 0,41 nel 2003 e allo 0,47 di oggi, ma per alcuni analisti il valore avrebbe addirittura superato la soglia critica dello 0,5.
Valutiamo ora questo stesso problema da un’altra prospettiva, quella degli operai, vale a dire quella categoria di persone che dai tempi delle riforme economiche di Deng Xiaoping ha di fatto trainato questo gigantesco affrancamento dalla povertà. Ebbene, oggi, le risorse a disposizione dei mille cinesi più ricchi sono equivalenti a quelle dei 263 milioni di lavoratori migranti della Repubblica popolare. In valori assoluti si tratta di 860 miliardi di dollari (la fonte è cinese e le stime si riferiscono al 2012).
Dividiamoli per il numero dei ricchi (anche se si sa che la disuguaglianza colpisce anche loro…), diventano 860 milioni di dollari. Ora dividiamo la cifra iniziale per il numero di operai migranti: il risultato è di 3.269 dollari a testa. E in effetti la paga annuale della maggior parte degli operai cinesi non supera i 3.500/4.000 dollari. Anzi, sarebbe utile sottolineare che chi arriva a queste cifre (che corrispondono a circa 300 dollari al mese), nella media cinese guadagna tantissimo. E questo non perché è impiegato in un’azienda che ha scelto di alzare i minimi salariali, ma perché si presta a coprire turni straordinari per una media di cento ore al mese.
Eppure, il governo si difende ricordando che negli ultimi tempi i minimi salariali sono cresciuti, solo nel 2011 ben del 21%. Quindi tanto, e nonostante la crisi finanziaria, che ha colpito la Cina tanto quanto il resto del mondo. Se è davvero così, perché gli operai stanno sempre peggio? Per inquadrare bene il problema servono altri dati: prima della crisi il Pil cinese aveva registrato per decenni tassi di crescita record. Mentre il paese cresceva, però, la percentuale di ricchezza divisa tra gli operai diminuiva. Passando dal 56,5% del 1983 al 35,7 del 2005 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati). Allo stesso tempo, aumentava del 20% la redditività dei capitali investiti.
Tutti questi dati ci portano verso un’unica conclusione: gli operai, in Cina, sono sfruttati. Quelli migranti in maniera particolare. La colpa, però, non è delle multinazionali, ma della Cina. Tant’è che non è possibile sostenere che la recente tendenza dei grandi gruppi occidentali a lasciare il paese per trasferirsi laddove individuano condizioni più vantaggiose per il proprio business sia responsabile dell’ultima brusca frenata sul piano degli adeguamenti salariali.
Una ricerca pubblicata da Accenture Consulting appena n paio di anni fa ha dimostrato che un incremento del costo del lavoro del 30% in Cina avrebbe un impatto dell’1, massimo 5% sui profitti. Dati che confermano che non è certo per gli aumenti salariali che le multinazionali se ne stanno andando dalla Cina. Sono il costo dei terreni, delle materie prime, delle risorse energetiche, le tasse e le spese amministrative ad aver annullato per tanti la convenienza della delocalizzazione in Oriente. Una situazione, questa, da cui hanno tratto vantaggio le grandi aziende di Stato, che negli ultimi anni sono diventate sempre più ricche.
Trentacinque anni fa Deng Xiaoping aveva detto ai poveri di non preoccuparsi, perché anche qualora non fossero stati i primi a diventare ricchi, prima o poi il benessere della nuova Cina avrebbe abbracciato tutti. I potenti di Pechino, però, hanno impedito che questo succedesse. E ancora oggi, messi con le spalle al muro dai capitali in fuga, hanno egoisticamente deciso di prendersela con gli operai pur di non intaccare i propri privilegi. Lasciando che la propaganda trovasse un valido capro espiatorio nelle multinazionali “cattive”.
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