di Adolfo Tamburello*
Napoli, 25 feb. - Rimane un vanto della marineria portoghese portatasi nell'oceano Indiano dal 1498 con Vasco da Gama aver raggiunto le coste cinesi già fra il 1513-14. Fra i molti italiani imbarcati o al servizio portoghese in Asia, Giovanni da Empoli (1483-1517), anticipava da Cochin nel 1514 in una lettera al padre che gli abitanti della Cina: "Hanno rii grandissimi, che vanno per la terra drento; che, per la notizia n'abbiamo avuto da loro, sono d'una banda e altra di detti rii, città e castelli bellissimi. Navigano per un rio tre mesi di navigazione, insino che arrivano alla città principale […]; onde sta il re de' Cini, che si chiama il Gran Cane di Gattaio. Confina con la terra; che se si discuopre et tutto, sarà cosa grandissima".
In realtà, la Cina dell'epoca non era più il Catai del Gran Khan della dinastia mongola degli Yuan, che i Cinesi avevano proclamato deposta fin dal 1368, ma la Cina dei Ming (1368-1644), la cui nuova capitale era già all'epoca Pechino.
In una successiva lettera spedita da Cochin il 15 novembre 1515, da Empoli chiamava la Cina col nuovo nome e ne faceva un peana: "[i Portoghesi] hanno discoperto la Cina […], la quale è la maggior ricchezza che sia nel mondo […]. La terra abbonda di tutta la seta bianca fina […]. Viene di là cose stupende…".
I Portoghesi, all'arrivo in Asia, avevano avuto obiettivi per i quali la Cina esorbitava dagli interessi della prima ora, che erano quelli della ricerca di "spezie e cristiani", come qualcuno di loro aveva propalato a gran voce. La Cina non forniva spezie, ma constatavano subito che ne era una grande acquirente e che già le sole spezie aprivano loro un inesauribile mercato, a cominciare dalla "seta bianca fine" che da Empoli aveva menzionato.
All'indomani dei primi scambi commerciali, Andrea Corsali scriveva da Cochin il 6 gennaio del 1515 a Giuliano de' Medici che, sebbene i Cinesi non li avessero fatti sbarcare "dicono così essere costume, che forestieri non entrino nelle loro abitazioni, venderono le lor mercanzie con gran profitto e tanto dicono essere d'utilità in condurre spezierie alla Cina come a Portogallo, per essere paese freddo e costumarle molto".
I Cinesi si facevano presto buona fama e anche per i cristiani da ritrovarvi, sembrava vi fossero serie possibilità, come Corsali proseguiva: "sono molto industriosi e di nostra qualità […]. Vestono a costume nostro, e calzano con scarpe e calzamenti come noi. Credo che siano gentili, avenga che molti dicono che tengano la nostra fede, o parte di essi".
Insomma, erano sì inavvicinabili (come si tramandava fossero stati i Seri di antica memoria), ma era un popolo civile: non andavano nudi e scalzi come altri in Asia e potevano essere cristiani o almeno esservi cristiani fra loro.
Chissà se era già recuperata la tradizione leggendaria dell'apostolo Tommaso in Cina di cui Francesco Saverio avrebbe parlato fra qualche decennio o era già stata rammemorata la presenza di nestoriani nella Cina poliana, cioè nel Catai, a "Cambaluc", quella che sarebbe diventata Pechino.
La capitale Ming ospitava dal 1601 la missione gesuitica di Matteo Ricci (1552-1610), e l'arrivo di Ricci a Pechino, fin dalla prima visita che vi aveva fatto qualche anno prima, rappresentò la vera «riscoperta» del favoloso Catai di Marco Polo e della città che i missionari francescani avevano raggiunto fra il XIII-XIV secolo.
Del Catai era rimasta vaga la localizzazione. I Portoghesi che erano approdati alle coste della Cina meridionale non avevano avuto occasione, prima di Ricci, di spingersi tanto a Nord e identificare in Pechino la «città del Khan» dell'epoca mongola (1279-1368). Che Khanbaliq, come la chiamavano i Mongoli, o «Cambaluq», come la trascrivevano gli Europei, fosse Pechino, e la Cina l'istesso Cataio, lo precisava definitivamente proprio Ricci, prima su assicurazioni dei musulmani residenti in Cina, poi con la testimonianza del viaggio del gesuita Benedetto de Gois dall'India al Kansu fra il 1603 e il 1605.
Ricci era arrivato alla capitale cinese ancora prima, non solo di Portoghesi e Spagnoli, ma anche di Russi e Inglesi. L'Inghilterra aveva a lungo studiato dal secolo precedente di raggiungere l'enig¬ma¬-tico Catai attraverso la Moscovia e aveva invano inviato fin dal 1584, prima a Jaroslav poi direttamente a Mosca, un proprio agente della Compagnia commerciale moscovita, John Mericke, per ottenere un attraversamento della Siberia. I Russi allestivano per proprio conto nel 1608 una spedizione alla volta della Mongolia e della Cina al comando di Ivan Belogolov, la quale tuttavia non arrivava al Catai. Solo nel 1618 la missione di Ivan Petlin raggiungeva Pechino.
Ricci lasciava scritto della Cina:
"Questo ultimo regno orientale venne a notizia de' nostri Europei sotto diversi nomi. Il più antico, del tempo di Tolo¬meo, fu di Sina. Dipoi […], ci fu data notitia di essa da Marco Polo, con nome di Cataio. "Ma, il più celebre di questi tempi, è questo di Cina, divulgato da' Portoghesi, che per lunghi e pericolosi viaggi per mare arrivorno a essa e mercanteggiano nella sua parte più al mezzogiorno, nella provincia di Quantone; sebene i nostri Italiani et altre nationi pensino chiamarsi China, ingannati dalla pronunciatione e scrittura spagnola, che non segue nel loro vulgare, in alcune lettere, la pronunciatione latina."
Il nome "China" sarebbe stato lungo a morire anche nella nostra lingua.
In conclusione, con le navigazioni portoghesi che avevano avvicinato le coste cinesi meridionali, era stata la Cina del Sud a recuperare l'antico nome che la classicità aveva trasmesso nelle forme Thina/Sina. Marco Polo aveva parlato di un «mare di Chin», ma per denominare il meridione cinese aveva usato il nome di Mangi, dal cinese Manzi, che era l'epiteto con cui i Cinesi del settentrione chiamavano con malcelato disprezzo i loro connazionali del Sud, designandoli con un nome che suonava qualcosa a mezzo fra 'barbari' e 'selvaggi'. Gli Europei del Cinquecento avevano continuato a ignorare che la Cina fosse in realtà comprensiva sia del Mangi e sia del Catai poliani.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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