di Francesco D'Arelli
Roma, 25 giu.- I Cinesi non furono mai intimoriti dall'horror vacui, un vero rovello invece per i nostri antichi. Il termine cinese xu è di solito tradotto con vuoto, vacuo o vacuità e il vuoto o la vacuità esiste in sé e per sé, ontologicamente come sostenuto nel Daode jing (Classico della via e della virtù) e nello Zhuangzi (Libro del maestro Zhuang), altra opera della tradizione taoista. Tutto diviene, esiste e si sviluppa in forza dell'altro: nulla esiste in sé e per sé, indipendentemente.
Tale assoluta vacuità viene prima di qualsiasi distinzione, anche logica. È prima della distinzione fra essere e non essere e così xu è il vuoto cosmico, la non esistenza prima di ogni inizio, la quiete assoluta, la suprema unità, dove ancora non esiste alcunché. È il caos primordiale, cioè a dire il tutto privo di forme. È il vuoto originario, prima e oltre l'infinita manifestazione del dao. Non è tuttavia assenza, nullità, poiché è la vera e genuina sorgente di tutto, dello stesso cosmo.
Xu è la profonda continuità, è la condizione in cui non si ingenera alcuna ostruzione o salto. Nello sviluppo del mondo, xu è lo spazio tra yin e yang, fra cielo e terra. Nella vita dell'uomo è l'età aurea, l'era della grande pace (taiping) e della grande eguaglianza (datong). La stessa mente del saggio deve raggiungere tale stato di vacuità, che è assenza di pensiero, di sentimento, di volontà e quindi anche di conoscenza. È uno stato di purezza o quiescenza dell'azione meditativa: è «l'inedia della mente» (xinzhai), come meravigliosamente si legge nello Zhuangzi.
Francesco D'Arelli è PhD in Studi Orientali all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha insegnato in diverse Università e dal 2011 è Acting Professor di Cultura e Società della Cina alla Libera Università degli Studi Luspio di Roma. Ha pubblicato numerosi saggi sulla diffusione e presenza del cristianesimo in Cina nei secoli XVII-XVIII e oltre cinquanta voci di filosofia cinese nel Treccani Filosofia (Roma 2008-2009).
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