di Francesco Palmieri
To have gathered from the air a live tradition
or from a fine old eye the unconquered flame
This is not vanity
E.Pound Canto LXXXI
Roma, 04 apr. - Nacque nel 1910 suddito dell'Impero Cinese. E' morto il 29 marzo scorso a centodue anni, o centotre, poiché Lam Jo, grande maestro di Kung Fu, secondo il costume di una volta conteggiava la sua età a partire dal concepimento. Fu il centesimo (o centounesimo) l'ultimo compleanno festeggiato in piedi, dritto come un bambino e lucido di mente come un trentenne, in gessato panciotto cravatta con un'eleganza che lui si poteva permettere. E vennero a Hong Kong per la cerimonia cinesi, americani, inglesi, italiani, boemi, greci e canadesi, senza considerare la gente di Singapore, di Taiwan e quella specie di cugini irresoluti e permalosi che risiedono a Macao. Questo avveniva tutti gli anni, ma ogni anno a una data diversa perché il maestro secondo l'uso di una volta si calcolava la nascita sul calendario lunare. Cadeva dunque diciotto giorni dopo il Capodanno cinese.
Nella sua famiglia marziale, attorno a Lam Jo "leggenda vivente" del Kung Fu, si livellavano le differenze culturali, linguistiche, religiose, politiche e sociali. Tutti furono secondo gli specifici casi fratelli, figli, zii o nipoti nella più classica struttura confuciana. Senza trattati giuridici né per accordi commerciali, senza congressi o espedienti diplomatici bensì solo in virtù di se stessa, si realizzava in un angolo meridionale della Cina l'espressione vivente della Tradizione quando è capace di essere universale. L'alternativa guénoniana alla globalizzazione nel tempo del kali-yuga.
Fu figlio d'arte Lam Jo. La scuola di Kung Fu di cui era capo e perfezionatore portava, e porta, il nome di Hung, carattere allocato nei dizionari sotto il radicale acqua, molto più ideografico che fonetico, significante la vastità del cataclisma e dell'inondazione ma anche una maestosità sottesa da recuperare. Richiama infatti l'appellativo Hongwu, che il primo imperatore dell'ultima dinastia di stirpe nazionale Han, Zhu Yuanzhang visionario instauratore dei Ming, diede ai suoi anni di regno. E fu perciò che quel carattere Hung scelsero i monaci ch'anisti superstiti del tempio di Siulam nel Fukien dopo l'incendio a tradimento comandato dall'irriconoscente imperatore mancese Yongzheng. Quella bandiera ideografica assunsero per riconoscersi e lottare clandestinamente contro la dinastia dei Qing, seminando nell'intera Cina meridionale le "uova del drago"che un giorno, però nessuno preveggeva quando, si sarebbero terribilmente schiuse. Quello stesso appellativo e la medesima tradizione avrebbero pure ispirato la Hung Men o Società della Triade, accolita guerriera poi degenerata in setta mafiosa ma detentrice di codici delicatissimi, esoterici e morali, che nell'orientamento al male ne hanno determinato la potenza ancora attuale.
Ecco che quel cognome portava pure – per elezione – il fondatore della scuola giunta fino a Lam Jo: Hung Hei Gun. E su di lui o per lui scaturirono favolosi racconti orali quindi scritti e si originò da lui una genealogia di maestri destinati alla difesa di quella Tradizione che gli imperatori del declino cinese avevano cercato di annichilire grazie al tradimento di un monaco e a una parola doppia di sovrano, attraverso il rogo di un tempio e la persecuzione della sua diaspora. Furono perciò, quei maestri superstiti, i depositari di una vendetta intesa quale giustizia differita, i titolari di una nemesi come lo erano stati, in un Oriente più vicino, gli inconsolabili reduci di Karbala dopo il massacro di Alì. E in un Oriente veramente attiguo la sorte assegnò analoghi intenti interiori ai profughi di Aquileia sopra la zattera, vestiti dei colori dolorosi con cui solo Domenico Morelli li poteva pittare.
Vantò quella genealogia tra gli altri Wong Kei Ying, una delle "dieci tigri cantonesi", cioè i più formidabili combattenti che la pratica costante su certi cuori assorti e talentuosi largisce al tempo di una generazione umana. E più ancora suo figlio Wong Fei Hung, morto nel 1925 e diventato eroe assoluto di una saga celebrata con decine di novelle popolari e più che cento film fino ai giorni d'adesso, protagonista che ha tentato registi come Tsui Hark e ha insidiato lo scetticismo senza scopo del pubblico occidentale, di cui un cinese non potrà mai capire il gusto masochista che s'autocompiace d'estenuata incredulità. Scendendo nell'ordine perpendicolare prescrivibile per tutto ciò che nacque da Siulam, il prediletto discepolo di Wong Fei Hung divenne Lam Sai Wing, zio di sangue e padre adottivo di Lam Jo, originario del villaggio cantonese di Pingjau, stimato dal fondatore della Repubblica Cinese Sun Yat-sen, morto nel 1943 e attore anch'egli di gesta semileggendarie, come la "battaglia del Teatro Lok Sin" a Canton, dove un'intera banda di taglieggiatori fu sgominata dalla perizia del maestro.
Resta avvolta in un bozzolo alquanto misterioso la genesi di tutte le leggende, persino quelle moderne, ma sicura ne diventa la formazione se i medesimi racconti si cominciano a ripetere e quando non una sola storia, ma numerose varianti della stessa storia si contrastano o si sovrastano giurando ciascuno di ciascuna l'assoluta veridicità. Si sa così che Lam Jo, adottato dallo zio ma malvoluto dalla zia, scappò ragazzo con una troupe dell'Opera Cantonese dove carpì nuove abilità e quei trucchi che avrebbe importato nella scuola. Si sa che quando fece ritorno alla casa adottiva apprese tutto ciò che lo zio conosceva. Che poi si affratellò al celebre maestro dello stile di Kung Fu della scimmia, Gang Dak Hoi, con cui riuscì a sfuggire ai giapponesi che occuparono Hong Kong nel 1941, umiliando a nome dell'Asia gli inglesi dopo circa un secolo di boria coltivata sull'oppio. Tatuata sull'avambraccio destro di entrambi – Lam Jo e il re delle scimmie – la stessa spada significava che sarebbero rimasti fratelli per sempre (ancora i tatuaggi non decoravano ma raccontavano). Perciò Lam Jo, che a parte lo zio-padre rifiutò ogni maestro, pensò che da un fratello poteva imparare e gli tolse alcune conoscenze per acquisirle nel suo stile.
E poi che molto tempo passa e lui fa sessant'anni – nel 1970 – succede quel clamoroso 'big fight' sull'isola di Tsing YI alla festa della Regina del Cielo, Tin Hau, la più barocca santità taoista, quando due scuole marziali si fronteggiano e ne derivano morti e feriti. Sugli avambracci di Lam Jo, che intervenne con i figli per riportare la pace, si spezzavano i bastoni dei contendenti e i quotidiani hongkonghesi intervistarono il maestro con l'ammirazione riservata agli eroi d'altri tempi perché i giornalisti – che pure aspirano all'enfasi del disinganno per karma contrattuale – al cospetto della Regina Celeste e di un erede di Siulam non potevano parlare solamente di una maxi-rissa con vittime.
Giunse ai cent'anni e li passò senza prendersi paura dei vivi né dei morti. Quando si trasferì in un'altra casa, il fantasma del precedente abitatore lo ossessionò per un mese buttandolo ogni notte dal letto, finché Lam Jo decise di parlargli, ordinò dei riti e lo placò con le maniere che si addicono a un gentleman. Il tutto, come ogni altra cosa, non amava raccontarlo ma lasciava che a farlo fossero gli altri qualora ci tenessero. Raccontò spesso invece la storia di quella sequenza segreta che un immortale in sembianza di gru bianca regalò a una ragazza della scuola molto tempo prima, e che era arrivata fino a lui e da lui si sarebbe trasmessa a chi poteva imparare. I piani del sottile e del materico si trasfondono l'uno nell'altro e ciò, si sa, un maestro lo enuncia per il piacere di allontanare gli increduli e per sgomentare la petulanza dei bene istruiti. Così pure, per scoraggiare malmostosi visitatori occidentali, impiegò l'arma insopportabile della semplicità, che spariglia chi non la crede appropriata a un gran maestro di qualcosa. Accadde così che mediocri istruttori europei, che si facevano annunciare a casa loro a colpi di gong, furono spoetizzati dalla sua perfida modestia. Come chi, avendo visto la copia della Tour Eiffel a Las Vegas, non è in grado di apprezzare la differenza dell'originale la prima volta che finalmente visita Parigi.
La vita di Lam Jo, come ogni vera Tradizione, è stata più avveniristica e contemporanea di tutte le presunte modernità. Cinese di una volta, però si convertì al cattolicesimo pur cittadino di una colonia anglicana, battezzando gli otto figli e mettendo a casa un grande crocefisso nei pressi della statua di Kwan Kung, dio delle arti marziali. Mai visse questa sintesi come conflitto. Da tutto il mondo vennero nel suo vecchio appartamento di Nullah Road a Kowloon, quartiere di Mong Kok, e chi vi fu accettato si riconobbe come a casa sua, e da allora non pensò alle differenze ma alla comune verità che unisce sotto lo stesso cielo gli uomini di una Catena. L'Axis Mundi s'allocava al terzo piano di quell'edificio secondario ai grattacieli, sullo stesso ballatoio di un bordello silenzioso e di una casa da gioco da cui incessante proveniva il crepitìo delle tessere di Mahjong. Fu sotto un cielo cinese che, forse non per caso, questo si realizzò in una babele di lingue confluite tutte per l'occasione, o tacenti o sottostanti, al dialetto cantonese con il suo minimo di sei toni, l'idioma più melodioso del mondo, il solo che Lam Jo volle e seppe parlare sorridendo di inglesi e pechinesi e delle loro lingue, che riteneva buffe o impronunciabili, durante un secolo e più di libertà e di tradizione. Cento e oltre, nella brevissima storia degli uomini, è in fondo come dire per sempre.
Fu ispirato dalla cultura e benché non fosse un letterato la intuì, come succede ai grandi marzialisti. Non gli sfuggivano tra quei due campi somiglianze e differenze, perché un vecchio proverbio gli piaceva ripetere (dei pochi che uno riesca a rammentare tornando da luoghi dove non sempre arrivi con la penna in tasca): "Mahn mhou daihyat – Mouh mhou daihyih" ("Nelle lettere nessuno si proclama il numero uno – Nelle arti marziali nessuno si proclama secondo"). Cose che insegna la Cina.
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