Che ne sarà di Menghistu Haile Mariam, il Negus Rosso, ex dittatore dell’Etiopia? Sono molti gli etiopi che se lo chiedono, proprio ora che il suo grande amico Robert Mugabe è stato detronizzato dalla guida delllo Zimbabwe. Menghistu, dopo il crollo del regime, è stato costretto a fuggire in Zimbabwe e il suo grande amico Mugabe lo ha accolto, anzi gli ha anche consentito di diventare consulente per la sicurezza del governo. Gli etiopi sperano, infatti, che Menghistu, i cui 17 anni al potere ad Addis Abeba (1977-1991) corrisposero a una stagione del “terrore rosso”, diventi il secondo leader africano a essere processato da un tribunale internazionale per i diritti umani, dopo l’ex presidente del Ciad, Hissene Habré, condannato all’ergastolo nel giugno del 2016 da una corte speciale appoggiata dall’Unione africana.
Diciassette anni di terrore
Appena arrivato al potere nel 1977, facendo valere il prestigio acquisito e il suo peso politico, Menghistu mostra subito il suo carattere dispotico e sanguinario. Prende il potere, diventa capo di Stato, e per dimostrare che è lui che comanda, consolida la sua posizione mandando a morte il più stretto collaboratore, Atnafu Abaté. Collaboratore, ma anche potenziale rivale. Non esita, Menghistu, a eliminare avversari o presunti amici. E le accuse sempre le stesse: attività controrivoluzionarie. La persecuzione è violenta. In due anni elimina, sistematicamente, tutti i potenziali avversari, compresi i membri della chiesa etiope, tra cui il patriarca Theophilos, i sostenitori del movimento di opposizione alla sua giunta militare, studenti, intellettuali e politici. Un periodo che viene, appunto, chiamo Terrore rosso. Menghistu si è concentrato, inoltre, nel reprimere la lotta di liberazione degli eritrei che hanno creato non pochi problemi, nonostante la scarsità di mezzi, all’esercito di Addis Abeba. Sovietici e cubani sono andati in soccorso a Menghistu per scongiurare, e respingere l’invasione dalla regione dell’Ogaden.
Una carestia da un milione di morti
L’obiettivo di Meghistu è stato quello di instaurare un sistema economico di tipo comunista, ma ha dovuto fare i conti, tra il 1984 e il 1985 con una carestia che ha colpito duramente il paese: in quel periodo morirono un milione di persone. Questa, forse, la goccia che ha fatto traboccare il vaso portando al declino del Negus Rosso. Con un paese in ginocchio, stremato, al collasso economico, una coalizione di forze ribelli riesce a impadronirsi del potere, nel 1991, e Menghistu fugge in Zimbabwe. Secondo una stima di Amnesty International più di 500mila persone furono uccise durante il Terrore rosso.
Nonostante ciò i sostenitori di Menghistu, per lo più membri della diaspora, sostengono che l’ex presidente abbia fatto il possibile per preservare l’unità del paese durante il periodo al potere, accusando il Fronte rivoluzionario del popolo, responsabile della deposizione di Menghistu nel 1991, di aver permesso la secessione dell’Eritrea, privando, così, l’Etiopia di uno sbocco al mare. Nel 2007, dopo un processo durato 12 anni, Manghistu viene condannato, in contumacia, all’ergastolo prima e poi in appello, nel 2008, alla pena di morte, da una corte etiope per genocidio e altri crimini durante la sua dittatura. Una sentenza che recitava: “Considerato il ricorso in appello, secondo cui l’ergastolo non è una pena commisurata ai crimini commessi dal regime di Menghistu, la Corte ha deciso di condannare l’imputato a morte”.
Ora che fine farà il Negus Rosso, fino alla caduta di Mugabe suo ospite - con lo Zimbabwe costretto a spendere ingenti somme per la sua protezione 24 ore su 24 - continuerà a godere dell’esilio dorato, oppure pagherà per i crimini che ha commesso? C’è da credere che gli etiopi lo vorrebbero vedere, per lo meno, rinchiuso nelle patrie galere.