Un signore seduto al tavolo sfoglia le pagine di un quotidiano sportivo, basta un cenno e arriva un altro caffè. Nel frattempo, c'è chi al bancone mangia di fretta un tramezzino prima di tornare in ufficio, e chi dà un'occhiata alla parete piena di vecchie locandine cinematografiche. Visto dalla porta d'ingresso, il bar “Conca d'Oro” è un bar di quartiere, come i tanti che se ne trovano girando l'angolo per le strade di Roma. Un bar che però nasconde una “scommessa”, quella vinta ormai da un anno dal gestore, Giovanni Carbonaro.
“Avevo due macchinette, ho deciso di toglierle”, ci racconta. E al posto dello spazio vuoto, ha messo una libreria, che un libro alla volta ha riempito un'intera parete del bar. “Mi facevano pure guadagnare, devo essere sincero”, racconta. Dagli anziani, a chi veniva qualche ora prima del turno lavorativo, fino ai ragazzi più giovani, giocavano un po' tutti. “A volte si vergognavano ad entrare, con la scusa del bagno, e invece si mettevano a giocare”, continua. Un euro alla volta, fino a perdere fino a 150\200 euro in un'ora.
Sono 2 milioni gli italiani a rischio dipendenza da gioco d'azzardo, che anche grazie alla liberalizzazione delle slot machine - datata 2003 – possono giocare ovunque. Anche al bar. In giro ci sono 380.000 macchinette, una ogni 160/170 abitanti, e il giro d'affari che generano è di 50 miliardi di euro all'anno, come mostrano i numeri forniti da AGIPRO, agenzia di stampa specializzata in numeri legati alle scommesse.
“È un business, e chi lo vuole fare lo fa”, aggiunge Giovanni. “Tengo al mio locale, e alla mia clientela”, e racconta di episodi legati a mancate vincite e conseguenti aggressioni avvenute all'interno del suo locale. Per lui “chi gioca è disperato, e chi guadagna 1000 euro al mese e ne spende la metà alle macchinette, è un pazzo”. Che tradotto in linguaggio medico è una “vera patologia”, così come la definisce la Dott.ssa Roberta Pacifici - Direttore Nazionale Dipendenze e Doping all'Istituto Superiore di Sanità – quando parla di giocatore d'azzardo compulsivo.
Anche per questa ragione, Giovanni ci confida che a distanza di un anno, rifarebbe la sua scelta di staccare la spina alle macchinette e portarle giù in cantina. “Guadagni di meno, ma lavori più tranquillo. Faccio il barista, e voglio guadagnare soltanto facendo il barista”. E chiude: “Perché una storia così, una storia normale, è finita sui giornali?”