Da Tiziano Ferro a Daniele Silvestri, le uscite della settimane
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Da Tiziano Ferro a Daniele Silvestri, le uscite della settimane
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Tiziano Ferro – “Destinazione mare”: Un brano in cui Tiziano Ferro segna il passo, in cui non ci sono exploit vocali, la cui leggerezza, se da un lato fa pendant con i primi caldi, dall’altro risulta esile e ruffiana. Da uno con l’oro in gola ci aspettiamo decisamente di più. Daniele Silvestri – “Tutta”: Forse nessuno come Daniele Silvestri è riuscito, dalla prima nota proposta al pubblico all’ultima di questo suo nuovo singolo, a crescere mantenendo regolarmente ad ogni uscita lo standard (alto. Altissimo. Che più alto non sapremmo nemmeno dove cercarlo in Italia) che lui stesso si è imposto. In questa “Tutta” ritroviamo quei colori dati alle parole, quella sua visione semplice ed impegnata, quel sound che sottolinea verso dopo verso uno sbrodolamento che fa procedere il brano come tessere del domino che cadono una dopo l’altra; così tu ascolti e non ti perdi una parola e alla fine quella storia ti entra dentro come se fosse la tua. Non è la prima volta che succede, certamente non sarà l’ultima, ormai non dovrebbe essere una sorpresa rendersi conto che Silvestri è il cantautore, se non migliore, certamente meglio cresciuto della sua generazione, capace di essere contemporaneamente altro da sé e se stesso. Ma i pezzi sono talmente dirompenti che invece no, ci stupiamo, ogni volta. Coma_Cose – “Agosto morsica”: Deviazione dalle tinte estive per i Coma_Cose; “Agosto morsica” funziona che è una bellezza, come è del resto la principale abilità del duo milanese, che ti acchiappa per la gola con questi testi che sono labirinti dentro i quali si è liberi e felici di perdersi. Lo Stato Sociale – “Stupido sexy futuro”: Nomi, cognomi, luoghi, sensazioni, emozioni, amori, storie, tante storie, talmente autentiche che è facile ritrovare la voce e l’intimità di chi canta; “Stupido sexy futuro” è ora anche nostro, sbrodola tutto quanto, come se la necessità fosse quella di liberarsi da un veleno per tornare a riconoscersi allo specchio, un disco pronto a svelare quelle verità celate da anni, da quando Sanremo e la fenomenologia mainstream che ne consegue, han provato a deviare l’anima di un collettivo che non facciamo fatica a definire necessario nel panorama italiano. Talmente necessario che non solo ascoltandolo ci trovi dentro quello che c’è, ma ci percepisci chiaramente anche tutto ciò che manca altrove. La necessità di dire qualcosa, di non restare inermi a guardare, immobili ad osservare crescere i follower, mentre fuori dalla finestra tutto accade e se le informazioni dipendessero dalla musica che gira, sarebbe tutto un carosello di amori nei quali la colpa è sempre dell’altro e manifestazioni plastificate di machismo gangsta rap. L’impegno nel non puntare il dito contro nessuno che non sia te stesso, celebrando la propria umanità, anche musicale, concedendosi scoordinazioni, rallentamenti e accelerate, parlati che ti aprono in due, segno che le cose da dire son talmente tante che forse nemmeno undici canzoni riescono a contenerle.

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Lo Stato Sociale stravince la sfida per ritrovare la propria essenza più onesta. I brani affrontano ogni singolo aspetto della nostra società, dagli amori che ci sono a quelli che non ci sono più, ma alla fine ci sono lo stesso, alla politica; dalla bolla indie, faticosamente gonfiata e fatta poi esplodere con la mano sinistra, a tutti gli errori commessi sulla strada, fino all’amicizi, vista e vissuta come oasi sicura. “Stupido sexy futuro” è molto più di un disco, è un punto e a capo di una storia già avventurosa, a tratti incredibile, a tratti storta, drammatica, fuorviante, ma vissuta sempre senza mai prendere in giro gli spettatori. No, non ci sono hit, non ci sono vecchie che ballano e nessun regalo all’italica radiofonia; ci sono solo belle canzoni, sentimentalismo puro e impegno nell'invitare ad essere migliori come persone. Che comunque, considerato che parliamo di un disco, è già tanta roba, no? Zef e Marz feat. Elisa e La Rappresentante di Lista – “Tilt”: Ordini un gin tonic e ti arriva un bicchiere d’acqua; l’effetto più o meno è questo. Non è che un brano diventa un buon brano solo perché dentro ci trovi Elisa e La Rappresentante di Lista; ecco, proprio no e questa “Tilt” ne è la prova. Ernia – “Lewandowski X”: La saga rap di Ernia legata, idealmente, all’attaccante Lewandowski, arriva al decimo capitolo, alla decima mina sganciata su un ambiente che si fa sempre più incravattato. Ernia non rappa, rade al suolo, non solo perché il flow è corretto, perché la costruzione delle barre è corretta o perché il suo talento è, in generale, cristallino, ma soprattutto perché ciò che ascolti è spudoratamente vero. Arisa – “Non vado via”: Una noiosissima celebrazione dell’italica melodia; una roba talmente anni ’90 che meriterebbe d’ufficio un generico undicesimo posto in una qualsiasi edizione condotta da Pippo Baudo. Mecna – “Stupido amore”: Mecna già occupava un posto in quella categoria di rapper, i cosiddetti liricisti, o conscious, che fungono da anello di congiunzione con il cantautorato puro, quegli artisti che insomma non prendono una penna in mano per farsi più belli allo specchio, ma perché in loro spinge il desiderio di dire qualcosa. In “Stupido amore” si aggiunge, e non è cosa da poco, una componente di musica suonata che fa tutta la differenza del mondo. Il suono del disco è morbido, ogni angolo è stato sapientemente smussato, il concept è l’amore, come suggerisce il titolo, quando è stupido ma anche quando è logorante in ogni sua forma; ma quando poi alla fine del disco ti fermi a riflettere un attimo su cosa hai ascoltato, in realtà ti rendi conto che si tratta di uno stratagemma, un abile trucchetto per aprirti lo spirito e capire quanto è profonda quella cosa che ti ticchetta in mezzo alle braccia. “Stupido amore” insomma ti mette all’angolo e, se glielo permetti, ti da l’occasione di trovarti faccia a faccia con la parte più autentica di te. Federico Dragogna – “Dove nascere”: Dragogna aveva bisogno di metterci la faccia, di staccarsi dal suono dei Ministri, forse proprio dal concetto di band, cosa che solitamente finisce per far bene anche alla stessa band. “Dove nascere” ha una fortissima impronta cantautorale, vive in bilico tra l’artigianalità tipica di chi è abituato a comporre musica ricercando un sapore autentico, quasi da cantina, che ti comunica quasi l’appiccicaticcio della birra versata su un bancone di legno poroso; e un’attenzione profonda, seria, a ciò che di buono permette di fare la nuova tecnologia in termini di produzione. Un agrodolce fulminante e poetico, parole che ti immobilizzano in tutta la loro limpidezza, che esplode in brani perfetti che compongono un album perfetto, forse tra i migliori proposti in questa annata discografica. “Dove nascere” è un disco di cui c’era un gran bisogno e Dragogna ne è degno autore. Gianni Bismark – “Studiami”: Bisogna dirlo, i romani hanno un senso della nostalgia superiore che riescono ad esporre in versi e musica in maniera totale. Sarà la pronuncia che si trascina quasi svogliata, come se fosse sempre sazia di vita e di bellezza, ma solo con un’intenzione riescono a dipingere un’intera atmosfera. Gianni Bismark in questo è un campione e “Studiami”, in cui ripercorre il suo passato con una serie di immagini che, letteralmente, regala al suo pubblico, è una finestra sul suo spirito a metà strada tra asfalto polveroso e romanticismo contagioso. Paola & Chiara – “Mare caos”: Brano sottile come un pareo, o comunque come uno di quegli indumenti colorati da spiaggia che anni dopo, durante un trasferimento, trovi in fondo ad un armadio e dici: “Ma a me davvero piaceva ‘sta roba?”. Ecco, se c’è qualcuno che si è appassionato, chissà poi perché, al ritorno sulle scene di Paola & Chiara, cui mancanza in questo oceano di povertà culturale poteva sentire giusto un parente stretto di Paola & Chiara, tra qualche anno, se riuscirà a conservare un briciolo di onestà intellettuale, penserà esattamente questo. CIMINI feat. Wallie – “Mai capito”: Il bravissimo CIMINI compone la colonna sonora di un libro del bravissimo Wallie, fumettista di grande talento. I colori tipici della composizione del cantautore calabrese si fanno più minimal in modo tale che venga fuori tutta la poetica possibile e quella poetica, preferibilmente abbinata a quella dei disegni di Wallie, ti avvolga completamente. Un gran bel pezzo incastrato in un gran bel contesto. Bravi entrambi, questi sono gli incontri che ci piacciono. Pop X – “Anal House”: Avete presente quei biscotti dal sapore discutibile, anche discretamente sgradevole al primo assaggio e dei quali poi, chissà per quale motivo, non riesci più a farne a meno? Ecco “Anal House”, esperimento dei Pop X, è così: clicchi play e ti chiedi esattamente cosa stia succedendo, quei suoni così ispirati, pur essendo così programmatici, quadrati, matematici, provocano un istintivo rigetto. Poi a poco a poco tutto cambia, riesci a percepire l’atmosfera alla quale si puntava e quando il disco è finito nella tua testa è passato un attimo ed è stato un attimo, come consuetudine ascoltando i Pop X, in cui ti sei molto divertito. Non è un disco semplice ma è un disco che conquista. The Kolors – “Italodisco”: Si capisce cosa volevano fare ma si capisce anche che ci sono riusciti a metà. Posto che la disco italiana sta bene lì sotterrata dov’è, se proprio decidiamo di rievocarla è bene farlo con un’intenzione più precisa, utilizzarne certi elementi, del tutto irritanti tra l’altro, solo per inseguire una hit al primo raggio di sole che buca il cielo, è operazione superficiale e inutile. Questa “Italodisco” in generale cela qualche spunto, ma poi si ferma lì. Dylan – “Love Is War”: Niente viene approfondito, senza avere la minima intenzione di rievocare immagini scortesi e sudicie, resta tutto a galla. Sarebbe interessante capire come si arriva a fare musica, anche a livelli molto alti, servendosi di collaboratori d’eccezione, in questo caso professionisti del calibro di Dario Faini e Francesco Catitti, due rivoluzionari del pop contemporaneo, senza avere niente, ma proprio niente niente, da dire. Naska – “La mia stanza”: Non è l’innegabile cazzimma che pervade ogni singolo aspetto dell’album, non è di certo un discorso di sonorità, che flirtano col punk ma poi fanno il giro e diventano un pop al quadrato, non è che in generale ci convinca sto granchè; non importa, pop, punk, rap, polka, l’importante è lavorare bene e con la massima e autentica ispirazione. Ecco, “La mia stanza” è un disco ispirato, una canzone tira via l’altra, come ciliegie, mantenendo altissima la curiosità, la narrazione, che non si perde in clichè giovanilistici, che non vuole arruffianarsi l’ascoltatore, ma trascinarlo in un luogo musicale in cui note e parole circolano con la massima libertà, pungendo come peperoncino negli occhi. Bravissimo. Simba La Rue – “Son fatto così”: Se ci sentiamo in obbligo di far notare che il gusto minimal di questo brano sia, se non gradevole, perlomeno sensato; dobbiamo altresì evidenziare la pochezza dello stile, veramente elementare, niente che potremmo mai sognarci di accostare al concetto di opera artistica. Matteo Romano feat. Luigi Strangis – “Tulipani blu”: Brano piccolo per due artisti ancora piccoli. Il ritornello che richiama un pop retrò funziona, com’è facile far funzionare il pop con influenze retrò, ma si perde in un mare di brani simili e tutti, regolarmente, dimenticati.

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