Da Elisa a Pablo America, le recensioni alle uscite della settimana
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Da Elisa a Pablo America, le recensioni alle uscite della settimana
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Mina – “And I Love Her”: Mina e Beatles. Possiamo fermarci qui? Si, possiamo, non serve aggiungere altro, tipo la grandezza di brani come “And I Love Her”, la cui bellezza non solo non concepisce il passare del tempo, ma si fa elastica fino ad adattarsi a qualsiasi voce e forma canzone possibile. In questo caso la sua storia si incrocia con quella di Mina, che ne propone una versione elegante e precisa, così come il suo stile immenso impone. Mina e Beatles. Chetelodicoafare? Elisa – “Set The Tone”: Elisa decide di accompagnare l’uscita del secondo volume del disco live “Back To The Future” con questo nuovo singolo. Un brano semplice, andante, sound da vaga dancehall anni ’80, con quello stile plastificato, quegli accennetti funky nelle chitarre e un ritornello che si ripete e si gonfia fino a scoppiare nel finale. Divertente, ok, ma niente di memorabile. Sick Luke feat. Mara Sattei e Bresh – “Vuoto dentro”: Questo rap poppizzato comincia a puzzare come gli ospiti a casa dopo qualche giorno; ma quando poi al banco regia troviamo Sick Luke, producer visionario, quello che in pratica si è inventato la trap italiana innescando una rivoluzione socio-culturale tra le più potenti della storia recente, allora ci si accorge che non è un suono ad aver stufato, ma l’intento sempre uguale che accompagna e condisce quel suono. Un producer trova il modo migliore di far suonare i pezzi che lavora, Sick Luke va oltre e te li rende davvero comprensibili, quasi vicini, straordinariamente intimi; si, straordinariamente dato che è evidente che non sia musica destinata ai quasi quarantenni (quasi eh). A sto giro si serve di Mara Sattei e Bresh, due dei più interessanti artisti del panorama pop contemporaneo. Luchè feat. Shiva – “Purosangue”: Il rap partenopeo e quello milanese che si incrociano per raccontare il rapporto con i soldi, in particolare quelli fatti in barba a chi non credeva in loro, che li avrebbero mai potuti fare. Intendiamoci, Shiva non è certo il primo della classe rap e se c’era qualcuno anni fa che non credeva in Luchè, era evidentemente qualcuno che di rap capiva poco o niente. Detto ciò il pezzo è liscio, si tiene in piedi più che altro sulla narrazione, che però è ormai corrosa da centinaia di canzoni che, più o meno, in un modo o nell’altro, meglio o peggio, raccontano tutte la stessa cosa. Non è il brano che non funziona, è proprio che non ce ne frega più niente di quanto, come, dove, perché e contro chi i rapper hanno fatto i soldi. Molto semplice. Aka 7even – “Voce (CoopVoce Original Music)”: Siamo fortemente combattuti se inserire nella nostra rassegna o meno un brano scritto per una campagna pubblicitaria. Ma questa “Voce” ha il merito di essere così brutta che si sarebbe aperto dentro di noi, all’altezza del plesso solare, un buco esistenziale se non ve lo avessimo fatto notare. gIANMARIA – “I bambini”: Il ragazzo ha stile, ha carattere, ha anche argomenti da trattare con la giusta modalità. Il problema è che poi mancano i pezzi forti, scritti bene, senza inseguire sonorità da classifica ma puntando sui punti di forza di questo ragazzo. L’impressione è quasi che la strategia si basi proprio sul tenerceli nascosti, magari omologarlo alla massa di questi cantantucoli stracolmi di stream e sconosciuti alla discografia più seria; insomma, creare i presupposti per la classica botta e via, la ricerca affannosa di una hit (che poi esperienza ci suggerisce che è esattamente il modo in cui le hit non arrivano). “I bambini” non è un brano brutto, è più forse che no, ha un costrutto tutto sommato accettabile, però ci conferma ciò che sapevamo già dell’ex X Factor, non va oltre in un momento in cui andare oltre vuol dire sopravvivere. Attendiamo curiosi. Danti – “L’ultimo disco (Parte 1)”: Danti è forse il producer che meglio di tutti ha compreso il nuovo pop, così com’è fluido ed inclusivo, che serve al rap e che del rap ha un disperato bisogno per esistere. “L’ultimo disco (Parte 1)”, il che fa intuire, e ci speriamo forte, che ci sia una parte 2 e che quindi non sia proprio per niente il suo ultimo disco, è veramente divertente. Ed è anche la prova che i producer album non è detto che debbano essere sempre e solo agglomerati di feat senza senso, possono anche avere un concept preciso, un’idea forzuta a reggere le fila del sound, univoco nonostante si salti in scioltezza tra rap e pop, alle volte pop più danzereccio, che poi sono le tre anime di Danti. Bravo. Lorenzo Fragola feat. Mameli – “Testa x aria”: Questa collaborazione tra Lorenzo Fragola e Mameli ha un non so che di autentico, sappiamo che Mameli è stato vicino all’amico in un momento non proprio facilissimo e che grazie a lui oggi Lorenzo Fragola è tornato alla musica. Se da un lato sarebbe facile fare battute sul fatto che non è che stessimo qui a sentire questa enorme ed insopportabile mancanza di Lorenzo Fragola e che quindi Mameli se si fosse fatto i fatti suoi nessuno lo avrebbe giudicato (ma, ripetiamo, è una battuta); dall’altro è anche vero che forse questi ultimi singoli in featuring con l’amico sono probabilmente la cosa migliore proposta da Lorenzo Fragola, hit comprese. E poi è una bellissima storia che ci dice che la musica è un elemento sul quale si possono edificare mondi interi ed è bello pensare che possa essere la soluzione per qualsiasi atrocità dobbiamo subire in questa dolente vita. Detto ciò, “Testa x aria” è un pezzo bruttino, inconcludente e poco incisivo; ma a questo punto troviamo più corretto sottolineare come in certe occasioni la validità di un brano o meno conti tanto quanto. Alex W – “Mano ferma”: Un brano, bisogna dirlo, corretto, scritto con decenza, senza inutili interventi urban, fortemente melodico, talmente tanto da richiamare un ambient molto anni ’90, di quelli decisamente strappamutande. Non ci sono molti guizzi, non è reso memorabile da un testo livello quarta (forse quinta, non di più) ginnasio, troviamo anzi molto difficile che possa risultare significativo per qualcuno, specie per qualcuno over 15. Però a tratti suona, insomma lo ascolti e non ti senti come dopo una cena a Gubbio. Gazebo Penguins – “Nubifragio”: Gran gusto, gran cazzimma, grande impatto sonoro. I Gazebo Penguins rappresentano forse la più onesta declinazione di quel garage rock indipendente di inizio 2000 che è riuscito solo a tratti a guadagnare centimetri di mainstream. Un genere quello molto importante, soprattutto perché difendeva con i denti un approccio alla musica serio, anche quando molto scomposto, molto complesso, molto impegnato. Si sente una gran mancanza in questo determinato periodo storico (e sempre più ne sentiremo continuando con certe modalità d’azione di matrice strettamente commerciale) di serietà e professionismo, di percepire nella musica italiana, specie quella che va, un’intenzione artistica che non ti faccia sentire come uno che sta lì ad ascoltare solo per farsi prendere in giro e rimpinguare i numeri di una discografia allo sbaraglio. Per fortuna che poi ci sono realtà come i Gazebo Penguins che ancora vengono coltivate, anche se nel silenzio del giro grosso della musica, perché abbiamo più bisogno noi di loro che loro di noi. Grazie. Lovegang126 – “Classico”: Gran bel pezzo da parte della più importante crew romana, quella 126 all’ombra della quale operano bravissimi artisti come Asp126, Franco 126, Ketama 126, Pretty Solero e Ugo Borghetti insieme ai producer Drone126 e Nino Brown. Un dipinto meravigliosamente autentico di Roma, tutti i “classici” della vita nella capitale, una sorta di elenco divertente, a tratti proprio entusiasmante, in rima, che restituisce un pizzico di quell’aria unica, di quella luce unica, anche quando offuscata dal pressapochismo tipico di noi italiani, che siamo un popolo che tende a dimenticare. In “Classico” invece si compie il percorso opposto, si ricorda, anche con una certa ironica e spietata nostalgia, in tipico stile romano; uno ascolta e si compone in testa questo puzzle emozionale che ti fa salire una gran voglia di cacio e pepe e passeggiate a Trastevere. Boreale – “Merito”: Pop allegrotto e accessibile che crea un retrogusto agrodolce rispetto al tema del pezzo: fondamentalmente la sfiga che alle volte ti si appiccica addosso e tu, all’ennesima, quando non riesci nemmeno a mettere il sale nell’insalata senza combinare un disastro, quando non ti fila liscio nemmeno il terreno sotto i piedi, quando ti rendi conto che per l’ennesima volta hai perso al Fantacalcio, avresti solo voglia di reclamare verso il cielo che non te lo meriti. Chissà se ce lo meritiamo o meno, chissà se davvero esiste un meccanismo divino che alle volte si incapriccia con la nostra esistenza e ci massacra a piccoli pezzi, sta di fatto che questa “Merito” è una buona canzone e Boreale si conferma artista particolarmente centrato. Pablo America – “Lonely Boy dei Black Keys”: Il talento, meravigliosamente schizofrenico, di Pablo America oggi guarda al passato, ad un amore non corrisposto, a quella profonda volontà che abbiamo quando siamo innamorati di entrare a far parte del mondo di quella persona, che evidentemente in questo caso suonava come “Lonely Boy” dei Black Keys. A sto giro la narrazione torna eterea, sopra le righe, calma ed evocativa. È un buon brano, un altro, e un altro indizio, un’altra briciola, per provare a capire chi è Pablo America, ben oltre quel Gerardo Pulli che in un’altra vita vinse “Amici di Maria De Filippi”; provare a ricostruire la genesi di un progetto che zigzaga nella nostra discografia senza darci punti di riferimento. Probabilmente il piano è proprio questo, allora bravo. Mida – “Ti sta bene”: Ignoravamo l’esistenza di tale Mida, ma dato il seguito, con numeri che ci ricordano all’istante quanto siamo totalmente inesistenti dinanzi al mercato discografico, abbiamo deciso di ascoltare questo nuovo singolo (a quanto pare ce n’erano anche altri). Forse era meglio se la strada di questa rubrica e quella di Mida rimanevano parallele senza incontrarsi mai: musicalmente sembra la versione farlocca cinese di thasup, saremmo stati disposti anche a valutare i contenuti del brano, ma non ci abbiamo seriamente capito niente. Il ragazzo ha origini venezuelane, è nato a Caracas, una volta scoperto abbiamo nuovamente cliccato play perché ci è venuto il dubbio che forse stesse cantando in spagnolo, ma no. Spero che non stiate ancora lì, aspettando una soluzione all’enigma, perché ad una certa ci siamo rifiutati di andare in fondo alla faccenda essendoci accorti che non ce ne fregava assolutamente nulla. Ci chiediamo soltanto come sia possibile che un brano, che passa sotto così tanti nasi non passi anche sotto quello di uno, non tanti, uno, che dica “Raga, ma siamo sicuri che vogliamo uscire?”. Barbato – “Metto radici”: Pezzo solido, evocativo, a metà strada tra l’omaggio e il rimbrotto verso quel sud che forma, anima, colora la tua vita, ma dal quale ad un certo punto, regolarmente, senti un forte bisogno di difenderti, come se quella voracità non sappia distinguere il bene dal male e si prenda tutto, senza lasciarti in mano niente. Per questo il sud è più difficile, per questo si è quasi sempre condannati a stare con un piede di qua e uno di là, per questo quando si va fuori poi si lascia lì dov’è, sperando che cambi e sperando allo stesso modo che non cambi mai, che mantenga i connotati della nostra unica vera casa. Il sud è così, poi si può raccontare con una serie di stereotipi guasti oppure in forma poetica, eterea, come fa il bravo Barbato in questo singolo, eliminando quella patetica nostalgia che ammorba necessariamente i brani che parlano del sud, come se ci sentissimo obbligati a recitare quella parte.

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