"L’ironia aiuta a non vedere la vita per quella che è", dice Dargen D'Amico
Intervista al rapper Jacopo D'Amico, in classifica con il nono album “Nei sogni nessuno è monogamo” appena uscito

Dargen D'amico
AGI - La scorsa settimana è uscito “Nei sogni nessuno è monogamo”, il nono album in studio di Dargen D’Amico, vero nome Jacopo D'Amico, rapper classe 1980, fuori dunque dalla bolla dei giovani ragazzini che invadono le classifiche specializzate di oggi, cresciuto all’ombra della old school italiana con lo pseudonimo Corvo D'Argento (da qui il nome d’arte attuale), accanto soprattutto a Gué (ei fu Pequeno) e Jake La Furia con i quali fonda le Sacre Scuole, formazione che non durò tantissimo ma ebbe un proprio momento.
Il largo pubblico generalista però lo conosce da poco più di un mese, grazie alla partecipazione alla 72esima edizione del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, dove canta “Dove si balla”, uno dei momenti considerati più distensivi della playlist architettata dal direttore artistico Amadeus.
Ma il pubblico soprattutto si affeziona al suo personaggio, così stralunato, “nascosto” dietro occhiali neri che non si possono togliere, ironico, leggero, dissacrante; ed è anche grazie a questo che “Dove si balla” arriva dritta dritta dov’è che puntava e oggi è certamente tra i brani più riconoscibili dell’edizione 2022 di Sanremo.
Dargen D’Amico non nasce dunque a Sanremo, è un artista già fortemente strutturato che si gioca il suo “cantautorap” con uno stile che è del tutto unico. Troviamo straordinaria la sua capacità di mettere insieme ironia e nostalgia; tutto, in questa folle e coinvolgente esplorazione dei confini del rap, musicale e concettuale, viene preso con sarcastico distacco, il rapporto con la madre, con il mondo, con la sfera sentimentale, tutto è dissacrante ed ogni contenuto regolarmente dissacrato.
Si tratta di un disco multicolore, ricco di sfumature, Dargen D’Amico, con delle pennellate surreali e stravaganti, disegna i connotati di un pensare musica in cui si da ampio spazio a contenuti ed interpretazione, quest’ultima, fisiologicamente, non proprio una caratteristica del genere; D’Amico invece la mette proprio in evidenza e il risultato è che questi pezzi li può interpretare lui e lui soltanto.
Sono brani intimi, battuta su battuta l’ascoltatore è invitato ad entrare dentro storie e pensieri del rapper, in particolare in bellissimi pezzi come “Sei cannibale ma non sei cattiva”, la geniale “Gaza”, “Sangue amaro”, “La benzina sapeva di tappo” e la struggente “Nei sogni nessuno è monogamo”. Si, struggente, perché l’ironia è solo un valido e complicato espediente per raccontarsi, anche per questo i brani di questo disco ci suonano confortanti, l’ascoltatore percepisce la propria umana piccolezza nei racconti di D’Amico e la accetta, non si sente solo nella propria lercia e comunissima intimità.
Com’è la vita dopo un esordio a Sanremo?
Io non vorrei deludere le aspettative, ma non sento delle grosse differenze se non una maggiore esposizione per le canzoni.
“Dove si balla” oggi è una delle canzoni più ascoltate del festival, che è la vera vittoria di chi partecipa, ma è stata trattata un po' da tormentone, un pò com’è successo l’anno scorso con “Musica leggerissima”, in realtà si tratta di un brano con un significato ben preciso…
Io mi sono fatto una domanda prima di partecipare, e cioè se ero convinto di far diventare questo brano un emblema, non avendo mai avuto un’esposizione come quella che mi avrebbe potuto dare Sanremo. Questo brano mi ha convinto quando lavoravamo in studio anche perché musicalmente aveva quel fattore carnevalesco, quel rovesciamento nel rendere positive delle energie negative che avevo accumulato.
Sulla percentuale di percezione del brano io tendo a sospendere il mio giudizio, perché sono il primo che non è sicuro di capire le canzoni che fanno gli altri, eppure mi sento attratto, le ascolto, la magia della canzone, della musica, è anche quello di trovare ciò di cui abbiamo bisogno in quel momento, questo succede con me quando ascolto le canzoni degli altri e immagino succeda agli altri quando ascoltano una mia canzone. In questo caso, quello che io definisco “fattore trenino”, è stato una guida quando stavamo in studio, mi divertiva quando partiva il pezzo, avevo questa sensazione di abbandono, e forse è quello di cui avevo bisogno io in quel momento.
Nel disco tu utilizzi l’interpretazione ironica per distaccarti da ciò che racconti, ma in realtà è un disco molto intimo…
Intimo credo anche per una ragione molto semplice: rispetto ai dischi precedenti ero abituato a vagare molto di più, con il corpo e con la mente, mentre in questi due anni essere limitato fisicamente, non riuscendo io a separare completamente mente e corpo, mi sono concentrato tanto sulle mie sensazioni, su di me, su come cambiano, sulla maturità, l’invecchiamento. Poi, essendo coincisa con una cesura con la socializzazione, forse sgocciola da lì l’intimità.
L’ironia è un comune denominatore nel tuo lavoro, no?
L’ironia è anche il motore dell’adattamento dell’uomo, perché se non riuscissimo a prendere con ironia quello che succede, sarebbe difficile passare da un giorno all’altro, se non ci fosse l’ironia sarebbe letta per quella che è la vita, ed è una tragedia. Quindi siamo noi che ci adattiamo, che cerchiamo di oggettivare le situazioni di cui siamo anche vittime, di lasciare quel distacco che ci permette di analizzare e quel distacco è l’ironia.
Allora, tornando a “Dove si balla”, la metafora della danza è una soluzione ai disastri della vita?
Io nel momento in cui ho scritto “Dove si balla” l’ho sentita come una soluzione. Non fermarsi di fronte agli ostacoli, trovare soluzioni alternative, non permettere che l’obbligo fisico zavorri anche il campo dell’immaginazione, trovare anche delle soluzioni creative a quello che succede. D’altra parte penso che il ballo in sé, mettere in moto il corpo, sia una soluzione per la salute mentale, in situazioni dove non sembrano esserci risposte, lasciar fare al nostro corpo, alla nostra chimica, riportare in movimento le funzioni vitali, sentirsi vivi. Sono sicuro, banalizzando, che il ballo non sia la soluzione ai problemi di questo mondo.
Non ci sono featuring nel tuo disco, una cosa più unica che rara nell’ambiente rap…
Io sono uno dei massimi sostenitori dei dischi con altre persone, perché personalmente è un’esperienza stare in studio con un altro artista, e l’esperienza non è proporzionale alla vicinanza artistica, anzi, forse mi capita di essere distante artisticamente ed avere molto in comune umanamente, ed è sempre stata per me una lezione di vita lavorare con altri artisti. Stavolta però volevo prendermi la responsabilità di quello che stavo facendo, nel disco ma anche a Sanremo, non volevo condividere il giorno delle cover con un altro artista, ero abbastanza convinto che mettere la testa fuori dalla sabbia fosse sia un’operazione discografica ma anche umanamente un tentativo di rimettere le energie in circolo. Il ballo ha sigillato questa metafora ma è una sensazione che io mi sono obbligato a vivere. In futuro vorrei tornare però a lavorare con gli altri artisti, è che i dischi sono terapie, alle volte hai bisogno di parlarne con altri, alle volte solo con te.
Come ti collochi nella scena rap italiana?
Non ho mai sentito l’esigenza di collocarmi, anzi dimmelo tu come mi collochi.
Be, non è facile…ma credo che quel cordone ombelicale con il rap non sia stato tagliato, no?
Io sono molto affezionato a questo genere, l’epifania dell’hip hop per me è stata fondamentale, io scrivevo già quando ero molto piccolo, alle elementari, nel momento in cui ho scoperto la musica rap mi si è accesa la lampadina. Perché è una musica particolarmente scritta, particolarmente contemporanea, insomma ho trovato una collocazione, non solo perché lo faccio come mestiere; quando ero piccolino era il mio tempo che assumeva un senso.
In questo momento non la ragiono più così, con l’esperienza ho capito che cerchiamo nella musica quello che ci serve. D’altra parte l’hip hop è nato proprio come collana di frammenti di suoni che potevano provenire dai generi più disparati e che li fa convivere proprio per questa volontà di aggregare. Forse decidere da che parte si sta quando si fa il rap è anche inutile.
Tu ti sei definito “cantautorapper”, che è un po' l’evoluzione più significativa per quel che riguarda la musica italiana, forse tutta, essendoci tra i rapper di oggi alcuni degli eredi più credibili dei cantautori di ieri…
Era una risposta ad un’intervista, volevo creare una sintesi tra una narrazione di musica italiana e la sonorità derivata dalla cultura afroamericana, l’hip hop ma senza riportare i clichè narrativi, è solo una questione di suono per quanto mi riguarda.
In questo senso, com’è cambiato il linguaggio del rap? È ancora quello delle battaglie sociali?
Essendo cambiato il mondo è cambiata anche la percezione della musica, un tempo certe informazioni le potevi solo reperire dal rap di chi viveva in quelle zone, ora ti arrivano a casa. Ora il rap è Twitter, è la rete, questo rap di oggi è l’evoluzione di un particolare momento del rap, che era la parte celebrativa, durante la quale si abbandonavano le tensioni e si cercava di celebrare la vita, nonostante le tragedie sociali che i rapper erano destinati ad affrontare giorno dopo giorno. C’era quella funziona ed è forse l’unica rimasta dato che il rap è diventato il pop.
Fedez ti ha definito un genio…tu ti senti un genio?
Dipende cosa si intende per genio. Uno che ha la sfrontatezza di pensare che quello che pensa lui andrebbe comunicato anche agli altri o uno che trascende il momento in cui vive e fa delle opere d’arte immortali? La seconda definizione non credo proprio…
Come si instaura un rapporto di amicizia con un personaggio talmente enorme come Fedez?
Federico io lo conosco da molto prima che diventasse un personaggio che attira la curiosità giornalistica, che è una cosa che io comprendo. Io però non riesco ad essere curioso del personaggio Fedez, mi incuriosisce più il lato delle debolezze umane, che sono vicine alle mie, anche se sono motivate da altro e vengano manifestate in maniera molto diversa.
Quanto somigli al personaggio Dargen D’Amico?
Per quel che mi riguarda non saprei definire cosa separa il progetto discografico dalla vita di tutti i giorni, non sono in grado di essere oggettivo in questo. Certo è che nessuno di noi è un personaggio univoco, tu in questo momento sei una versione di te stesso molto diverso rispetto a quando sei con la persona che ami o con la tua famiglia o con il tuo pubblico…senza dubbio in Dargen D’Amico ci sono delle cose vicine a me e altre che io non farei mai, che fanno parte di un percorso, di un gioco.
Forse anche lo scollamento che provo nei confronti di Dargen è anche magneticamente l’energia che mi porta ad andare avanti e fare le cose, a trovare delle soluzioni nuove e non smettere di farmi delle domande nella vita di tutti i giorni. Nonostante siano molto diverse e non ci sia contatto tra il binario e il treno, poi effettivamente fanno parte dello stesso pianeta.