Dieci anni sul red carpet
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Dieci anni sul red carpet

Dove c’è un red carpet, in smoking, microfono e sorriso smagliante, c’è Livio Beshir. Quello dei David di Donatello, il prossimo 27 marzo in diretta su Rai Movie prima della premiazione su Raiuno,per lui sarà speciale: perché per il quarantenne italiano di madre ciociara e padre egiziano naturalizzato americano (un Mahmood coté cinematografico insomma, anche se spesso è stato esteticamente accostato a Barack Obama) il tappeto rosso dei David segna i suoi dieci anni in prima linea ai Festival del cinema, da Venezia a Cannes, da Roma a Berlino. Un compleanno che fatalmente coincide con quello del suo deflagrante approdo su Rai2 nel 2009, lui che veniva dal teatro e dalle fiction tv, come primo “signorino buonasera” della tv italica.

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Quando diventò il primo “Signorino buonasera” d’Italia si parò addirittura di rivoluzione televisiva

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“Quell’esperienza mi catapultò in un calderone mediatico cui non ero affatto pronto. Fui chiamato per un provino insieme a centinaia di altri attori, modelli e conduttori, lo superai e finii sotto i riflettori. Un’attenzione inversamente proporzionale all’impegno artistico richiesto da quel ruolo: dovevo leggere il gobbo, tutto qui. Quell’esperienza è durata un anno, poi c’è stato il cinema, molta tv (Beshir conduce da cinque anni “Movie Mag” su Rai Movie, che trasmette in seconda serata anche i red carpet di Venezia e Roma, prima delle loro repliche su Raiuno ndr ) e sempre parallelamente al mio lavoro attoriale l’impegno decennale sul red carpet, ad accogliere le star pochi istanti prima del debutto del loro film, o come nel caso del David, della loro vittoria o eventuale delusione".

Come si accoglie una star sul red carpet?

Può sembrare facile, ma non lo è. Perché, in diretta, condivi con il pubblico l’emozione della star che in quel momento è più agitata di te. Non sa se vincerà quel premio, se il suo film verrà applaudito o fischiato. Devi quindi lavorare con le tue emozioni e con le sue. E poi, rispetto ai miei colleghi americani che dopo il classico “Welcome back to...” bombardano gli attori con domande e apprezzamenti su abiti, gioielli, scarpe e acconciature sfoggiate sul red carpet, io, lavorando per la Rai devo tenermi lontano da argomenti che possono sconfinare nella pubblicità occulta. Lo preferisco, ovviamente e studio. Da un mese ad esempio mi sono immerso nei film dei candidati al David, per prepararmi le domande relative ai personaggi e alla trama. Ma le star non ci sono abituate. Si meravigliano, come Scarlett Johansson, stupita che non le chiedessi niente del suo look, ma volessi sapere invece come si era preparata per il suo personaggio.

L’intervista più riuscita sul tappeto rosso?

Quella che mi è piaciuta di più, perché è stata forse la più vera, è stata quella con Jim Carrey al Festival di Venezia di tre anni fa: lo approcciai con il solito “Welcome” seguito da “how are you?”. Pure lui mi chiese come stavo, io risposi automaticamente “bene” e lui, scettico: “No, io voglio sapere come stai davvero”. “Sono stanco…”, ammisi, visto che al ritmo di vari red carpet al giorno e cinque-sei minuti di intervista per tutti i componenti del cast, una discreta fatica fisica ed emotiva la faccio. Comunque dopo dieci anni di red carpet posso garantite che le star più grandi sono anche le più umili. Non faccio nomi, ma mi sono capitati attori italiani neanche così famosi che, spazientiti per l’eventuale attesa dell’intervista, se ne sono andati sbuffando. Tutto il contrario di Steven Spielberg, tranquillo in un angolo ad aspettare che finissi intervistare un attore (e io non mi ero neanche accorto della sua presenza), di Al Pacino che sempre a un Festival di Venezia presentava due film, uno in concorso e uno no, e affrontava red carpet e photocall sempre con entusiasmo e sorrisi. E poi Lady Gaga: l’anno scorso a Venezia quando le chiesi: “Quando hai capito di essere diventata una star?” lei rispose “Forse in questo momento”. Qualche momento complicato dalla mia emozione o da quella dell’intervistato qualche volta non manca, e allora ricorro all’improvvisazione imparata nella mia carriera attoriale.

Lei è conduttore e pure attore di cinema, teatro e fiction tv, ha deciso cosa vuole fare da grande?

Mi trovo molto a mio agio con la mia multipla personalità professionale. Ho studiato recitazione a New York, dove vive mio padre, con Susan Batson, la stessa coach di Lady Gaga per “A star is born” e a 17 anni ha debuttato al cinema, diretto da Citto Maselli, nel cortometraggio “Intolerance” presentato proprio al Festival di Venezia, prima di darmi a tanto teatro (a maggio sarà sul palco ne “La strategia del colibrì” di Max Vado, dove il suo personaggio prepara una conferenza per la pace ndr) e alla tv. Maselli mi aveva scelto per interpretare un clandestino, poi negli altri film sono diventato uno spacciatore e così via…

Clandestino, spacciatore, sempre ruoli negativi?

Il primo che mi ha scelto per un personaggio positivo è stato Stefano Sollima, per “Acab”. Il fatto è che al cinema il nero viene spesso stereotipatamente visto come problema sociale. La mia pelle scura mi aveva portato a fare un provino con Marco Risi, per il ruolo di un lavavetri nel suo celebre “L’ultimo capodanno”, con Marco Giallini e Monica Bellucci. Ma fui scartato, con Risi che disse: “Ma è troppo caruccio per fare il lavavetri..”. Il destino però mi poi portato a lavorare con Giallini, prima in Acab e più recentemente nella fiction “Rocco Schiavone”, nella parte di un diplomatico dell’Equador. Lì e prima ancora nei film di Giulio Base e Max Croci “La coppia dei campioni” e “Al posto tuo”, ho finalmente recitato con una giacca addosso”.

Ruoli stereotipati a parte, è mai stato vittima di episodi di razzismo?

“Fortunatamente mai. Ma mi sono sentito dire spesso “Parli bene l’italiano, però” da chi non riusciva a credere che con la mi pelle scura potessi essere italiano. Invece sono fieramente ciociaro e da qualche mese ho pure lasciato Roma per tornare a vivere nel mio paese d’origine, Paliano. Per restare con i piedi per terra, sentirmi protetto e frequentare gente genuina, lontano da una città come Roma dove la metà della gente lavora nel mondo dello spettacolo e l’altra metà vorrebbe farlo. Però, pur adorando l’Italia e la sua Ciociaria, di fronte a certe frasi velate di pregiudizio e a certi modi di fare, soprattutto quando vado a Parigi o New York, sento quanto talvolta l’Italia è provinciale, pressapochista e approssimativa. Come per la vicenda di Mahmood ad esempio. Ho amato il suo "Soldi” fin dal primo ascolto, e tutta quella strumentalizzazione mi ha davvero infastidito”.

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