L’Italia è davvero uno dei Paesi europei con più lavoratori della gig economy?
Il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha detto che il nostro Paese è tra quelli con più gig workers. Abbiamo provato a verificare

Il vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, in un’intervista pubblicata il 19 giugno dal Sole 24 Ore, ha confermato l’obiettivo dell’esecutivo di introdurre una normativa avanzata per i lavoratori della cosiddetta “gig economy”. Di Maio ha giustificato la sua posizione dicendo che "l’Italia è tra i Paesi europei con il maggior numero di gig workers" e che il governo ha il “dovere” di occuparsi di questi lavoratori. Siamo andati a verificare.
Che cos’è la gig economy
Non è molto chiaro, in realtà, a che cosa si riferisca di preciso il termine “gig economy”. Manca infatti una definizione chiara e condivisa di questo fenomeno. Esistono soltanto descrizioni generali, che raggruppano diverse prestazioni lavorative.
Lo confermano, ad esempio, anche uno studio del 2017 sulle proteste dei rider Foodora in Italia – curato dalla ricercatrice Arianna Tassinari dell’Università di Warwick e colleghi – e un report scientifico della Commissione UE dello scorso anno.
Nonostante la poca chiarezza terminologica, possiamo dire che la gig economy (in italiano, “economia dei lavoretti”) indichi tutti quei lavori saltuari in cui si integra il proprio reddito solo a chiamata o quando si è disponibili. Un esempio è quello dei cosiddetti “fattorini digitali”, ossia i lavoratori che consegnano cibo a domicilio attraverso applicazioni come Foodora e Deliveroo.
Negli ultimi anni, le piattaforme digitali hanno facilitato lo sviluppo di un mercato molto dinamico, in cui le posizioni lavorative temporanee sono diventate sempre più comuni. Questo ambito però non va confuso con quello della sharing economy. L’“economia collaborativa” infatti rappresenta realtà come Blablacar e AirBnb, in cui si guadagna o si diminuiscono i costi di un servizio condividendo risorse o azioni.
La mancanza di una definizione condivisa della gig economy ha due conseguenze: la difficoltà di calcolare quanti lavorano in questo settore e la necessità di qualificare i loro diritti.
Quanti sono i gig workers in Italia
A oggi, non esistono dati ufficiali sul mercato della gig economy in Italia e su quante persone impieghi. A inizio giugno, la Fondazione Debenedetti ha presentato un report – che sarà pubblicato a luglio – in cui si stima che i gig workers siano tra i 700 mila e un milione. Per 150 mila di questi (lo 0,4 per cento della popolazione) si tratta dell’unico lavoro.
Gli addetti alla consegna di cibo a domicilio che operano per le piattaforme digitali sono circa 10 mila – con un guadagno medio di circa 12,5 euro lordi l’ora – mentre i fattorini in generale costituiscono solo il 10 per cento dei soggetti totali impiegati nella gig economy.
Il 26 maggio, il presidente dell’Inps Tito Boeri e gli economisti Giulia Capponi, Alan Krueger e Stephen Machin hanno presentato i primi risultati di un’indagine – presenti anche nel rapporto della Fondazione Debenedetti – per quantificare quanti siano in Italia i lavoratori della gig economy. I dati mostrano che nel nostro Paese, il 15 per cento delle persone in età lavorativa è composto da lavoratori autonomi, mentre solo il 2,5 per cento è composto da lavoratori autonomi che sono anche gig workers.
Secondo i dati Istat, la popolazione attiva (tra i 15 e i 65 anni di età) è il 64,1 per cento della popolazione italiana, ossia circa 38,8 milioni di individui. Su questa cifra, il 2,5 per cento rappresenta circa 970 mila persone.
Il confronto con l’Europa
L’indagine di Boeri e colleghi propone anche una comparazione con la situazione nel Regno Unito. Qui, il 12 per cento della popolazione in età lavorativa è composta da lavoratori autonomi. L’8 per cento di quest’ultimi è caratterizzato da gig workers, quasi il triplo rispetto al nostro Paese.
Ma com’è messa l’Italia in confronto con gli altri Paesi europei? A oggi non esistono studi esaustivi che possano dare una risposta a questa domanda.
A novembre 2017, l’Università dello Hertfordshire – in collaborazione con la Foundation for European Progressive Studies, UNI Europa e Ipsos Mori – ha pubblicato i risultati di una prima indagine sulla gig economy in Europa. Gli autori della ricerca hanno cercato di mappare questa tipologia di mercato, intervistando oltre 17 mila individui in sette Paesi: Austria, Paesi Bassi, Germania, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Italia.
“Uno dei risultati più importanti della nostra ricerca è l’impossibilità di tracciare una linea di demarcazione netta tra i gig workers e gli altri lavoratori”, ha dichiarato la professoressa Ursula Huws, una delle autrici del report.
Usando una definizione ampia di gig economy, i ricercatori hanno comunque stimato che un’alta percentuale degli intervistati italiani – circa il 22 per cento – abbia lavorato almeno una volta grazie alle piattaforme digitali, rispetto al 9 per cento della Germania e del Regno Unito.
Anche negli Stati Uniti è stata notata la difficoltà di calcolare il numero esatto di lavoratori nel settore, come ha detto ad esempio il Bureau of Labor Statistics nei dati pubblicati il 7 giugno scorso.
Il quadro normativo sulla gig economy
La seconda conseguenza della scarsa chiarezza intorno al fenomeno della gig economy riguarda la questione legale sui diritti dei lavoratori: se debbano essere considerati quindi lavoratori autonomi – come ad esempio un idraulico – o subordinati, come se fossero dipendenti.
I gig workers possono in teoria decidere per quanti giorni lavorare, quando iniziare e quando smettere. Ma in molti casi, il loro pagamento non è orario ma a cottimo e sono senza tutele sociali, come una paga minima, ferie e malattia.
Ad aprile 2018, una sentenza del Tribunale di Torino ha stabilito che i fattorini di Foodora devono essere considerati lavoratori autonomi, ma ci sono state polemiche sulle motivazioni dei giudici.
A marzo 2018, la Commissione europea ha invitato i Paesi dell’Unione a formulare nuove normative per garantire una maggiore sicurezza ai lavoratori della gig economy, dando seguito alle raccomandazioni contenute in un report del Parlamento europeo.
Conclusione
La frase rilasciata dal vicepresidente del Consiglio è difficile da verificare, anche se i pochi studi a disposizione confermano la crescita della gig economy in Italia. Un trend in linea con l’aumento del lavoro accessorio nel nostro paese, certificato dal rapporto Il mercato del lavoro 2017 dell’Istat. Non è però possibile dire se davvero l’Italia sia uno dei Paesi in cui questa forma di lavoro - tra l’altro difficile da definire - è più diffusa che altrove.
Senza entrare nel merito della proposta di contratto nazionale avanzata dal nuovo governo, la dichiarazione di Di Maio va comunque nella direzione indicata in sede europea.
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