Pierluigi Bersani, ospite di Lilli Gruber su La7, ha dichiarato lo scorso 29 marzo: “L’aumento dell’Iva è già stato deciso dal governo Renzi per il 2018. Renzi dovrebbe dire come facciamo a togliere l’aumento dell’Iva”.
L’ex segretario del Pd, fuoriuscito dal partito insieme ad altri per fondare una nuova formazione politica (Articolo 1 – Movimento Democratici Progressisti), risponde così alla dichiarazione di Renzi che, ospite di Bruno Vespa, aveva qualificato come “un errore politico” l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto.
Bersani ha ragione.
Il governo Renzi, con la legge di stabilità per il 2015, introdusse una clausola di salvaguardia (comma 718), che prevedeva un incremento automatico delle aliquote Iva e delle accise e che poteva essere evitato con interventi di revisione della spesa. In particolare dovevano essere trovati 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi nel 2017 e 22 miliardi dal 2018.
Per il 2016 e per il 2017, il governo Renzi è riuscito a far quadrare i conti in modo che la clausola di salvaguardia non venisse attivata. Con la legge di Bilancio 2017, in particolare, si è previsto che quell’anno non scattassero gli aumenti previsti: per l’Iva “agevolata”, che riguarda solo una serie di prodotti e servizi (tra cui ristrutturazioni edilizie, vari beni alimentari, prodotti farmaceutici etc.) l’aumento sarebbe stato dal 10% al 13%, e per l’Iva ordinaria, che riguarda cioè tutto il resto, dal 22% al 24%.
Per il 2018 invece la stessa legge di Bilancio 2017 - presentata dal governo Renzi ed approvata definitivamente dal Parlamento il 7 dicembre, pochi giorni prima delle dimissioni del premier – prevede che le aliquote salgano dal 10% al 13% e dal 22% al 25% (che nel 2019 diventa 25,9%), e che anche dalle accise sulla benzina vengano reperiti 350 milioni di euro, per coprire un fabbisogno di 19,571 miliardi di euro.
Si tratta ovviamente di previsioni che il governo può sovvertire, come già fatto negli anni passati, con la legge di Bilancio 2018 che dovrà essere approvata entro la fine di quest’anno. Si pone il problema di reperire circa 20 miliardi di euro per impedire che diventi inevitabile l’aumento dell’Iva.
Bersani ha dunque ragione quando attribuisce al governo Renzi la paternità di questi aumenti, al momento previsti ma su cui si può ancora intervenire.
Per fare un po’ di storia, ricordiamo che l’introduzione delle prime pesanti clausole di salvaguardia in Italia risale all’ultimo governo Berlusconi. Questo, coi decreti legge del 2011 numero 98 e 138, dispose che, se l’esecutivo non avesse trovato dalla razionalizzazione della spesa sociale 20 miliardi già iscritti in bilancio come entrata entro il 30 settembre 2012, sarebbe intervenuta una “clausola di salvaguardia” e ci sarebbe stato un taglio lineare delle agevolazioni fiscali.
Il governo Monti reperì parte di quei 20 miliardi, ma non tutti. Per la parte mancante fu presa la decisione – con il decreto legge 201 del dicembre 2011 – di non toccare le agevolazioni fiscali ma l’Imposta sul valore aggiunto, che salì dal 21% al 22% mentre era al governo Letta, a ottobre 2013.
Il governo Letta, a sua volta, lasciò in eredità al successore, con la legge di stabilità 2014 (comma 430), un’altra clausola di salvaguardia con cui si disponeva che, se la spending review o l’aumento delle entrate non avessero portato al raggiungimento degli obiettivi previsti, (rispettivamente 3 miliardi di euro per l'anno 2015, 7 miliardi per l'anno 2016 e 10 miliardi a decorrere dal 2017), i soldi sarebbero stati trovati con una diminuzione delle detrazioni e delle agevolazioni o con un aumento delle imposte.
Il governo Renzi, con la legge di stabilità per il 2015, “sterilizzò” – cioè rese inefficace – la clausola di salvaguardia ereditata per quell’anno ma, come si diceva, ne introdusse una nuova. Quella che, neutralizzata per il 2016 e 2017, ora pende sulla testa dell’esecutivo come una spada di Damocle per il 2018.