Il rapporto con l’odore delle ascelle divide oriente e occidente. Nonostante l’affermazione possa prestarsi a essere tacciata di un velato razzismo a doppio senso, secondo quanto scrive il New York Times il differente rapporto tra occidentali e orientali con l’odore e il sudore del corpo umano, sulla base di motivazioni sia culturali che biologiche, ha dato filo da torcere ai grandi gruppi occidentali che dagli inizi degli anni Duemila hanno esportato deodoranti verso i mercati dell’Asia orientale. In particolare, la classe media e urbana della Cina che in quegli anni cresceva a ritmi sempre più interessanti per le multinazionali statunitensi non sembra avere dato segni di particolare interesse verso questo tipo di prodotti. Risultato: i ricavi provenienti dalle vendite non sono stati sufficienti a rientrare dagli investimenti di marketing.
C'è lo zampino di un gene
Nel frattempo, alcune grandi catene occidentali note in tutto il mondo, come Starbucks o la Apple si espandevano nel gigante asiatico, cambiando anche le abitudini di larga parte di una popolazione (nel caso della catena americana del caffè) che tradizionalmente ha sempre visto nel tè la sua principale bevanda calda. Altri prodotti esportati sono stati oggetto di passioni altalenanti o di diffidenze da parte delle autorità: è il caso dei formaggi, che non compaiono generalmente sulle tavole della Cina, ma che oggi sono oggetto di interesse da parte di una categoria di persone sempre più aperta e che ha viaggiato all’estero.
Proprio alla fine dello scorso anno, i formaggi, e soprattutto quelli a crosta molle come il gorgonzola, sono stati bloccati temporaneamente dal governo per controlli sanitari, provocando uno stop alle importazioni durato alcune settimane, prima dello sblocco finale. Il deodorante, spiega il quotidiano della Grande Mela, che ha sentito rappresentanti delle catene produttrici, non sarebbe, però, riuscito a cambiare le abitudini di igiene intima della Cina e dell’Asia orientale, avendo vita difficile fin dal principio: le aziende si sono dovute ingegnare per trovare modi di andare incontro ai gusti del consumatore finale, che considera la traspirazione come una parte naturale e benefica del metabolismo, e probabilmente neppure così sgradevole all’olfatto. Almeno non secondo le ricerche di alcuni scienziati che nel 2009 hanno scoperto la presenza di un gene, lo Abcc11, di cui sono provvisti proprio i popoli dell’Asia orientale, in grado di contenere l’odore delle ascelle.
E anche i giapponesi sono diffidenti
A certificare lo scarso appeal del deodorante in Asia orientale, ci sono anche i dati diffusi dal gruppo di ricerca Euromonitor. Nel 2016, le vendite di deodoranti negli Stati Uniti si sono aggirate attorno ai 4,5 miliardi di dollari; in Cina, nello stesso periodo, si sono fermate a 110 milioni, mentre in Giappone sono state circa un decimo di quelle Usa. Il New York Times parla anche delle difficoltà degli stranieri che hanno vissuto a lungo in Cina, prima del boom dell’e-commerce, di reperire i deodoranti: uno di loro, che ha vissuto a Pechino per circa dieci anni prima di lasciare definitivamente la Cina lo scorso anno, ha dichiarato di farne scorta negli Usa prima di ogni ripartenza per la Cina, adducendo come motivazione che era quasi impossibile trovarli. Difficile da credere, per chi in quegli stessi anni viveva nella capitale cinese: i deodoranti si trovavano pressoché ovunque, come oggi del resto, sia nei supermercati che nelle catene Watsons, che spopolano a Pechino e in altre città della Cina. La preferenza va sicuramente agli stick, più diffusi degli spray, ma la possibilità di prevenire i cattivi odori corporei era già allora assicurata.