Il coronavirus rappresenta una sfida sempre grande alla Città Proibita. Non soltanto dal punto di vista sanitario dell’epidemia. L’ultimo e più vistoso caso nelle crescenti critiche alle autorità di Pechino è arrivato da un appello che un gruppo di noti accademici cinesi ha rivolto all’Assemblea del popolo: “È anche perché la libertà d’opinione e la verità vengono represse dalle autorità che il virus si diffonde”. Questo è uno dei passaggi più forti della lettera aperta inviata a Pechino.
È il segnale di un malcontento sempre più diffuso sugli insabbiamenti, le mancanze dei funzionari e la scarsa trasparenza rispetto alla grande crisi del coronavirus. La morte del dottor Li Wenliang, il primo a lanciare l’allarme sull’epidemia, è per molti il simbolo dell’atteggiamento autoritario e repressivo delle autorità di Pechino nella gestione della crisi.
“I cinesi non dovrebbero più essere minacciati dalla macchina statale o da organizzazioni politiche. I diritti dei cittadini ad una libera riunione e alla comunicazione non devono essere condizionati da una qualche forza politica”, si afferma ancora nell’appello, nel quale si chiede anche la rimozione di ogni forma di censura e delle limitazioni imposte ai social media.
Anche un magistrato della Corte suprema, Duan Huang, ha a suo modo dato un segnale in questo senso, diffondendo su un canale WeChat destinato a informazioni relative al diritto giudiziario un lungo articolo di un altro autore che critica apertamente il sistema cinese, sempre in nome della libertà d’opinione, anche sui social media, reclamando anche una “società più aperta e sana”.
Sono critiche alla luce del sole come raramente se ne sono viste nella Repubblica popolare. Così, mentre Pechino – in difficoltà anche per l’impatto che l'epidemia ha cominciato ad avere sulla crescita sempre più lenta dell’economia del Paese - reagisce con nervosismo iniziando a silurare i responsabili del Pcc nella provincia di Hubei e a Wuhan, epicentro dell’epidemia, sempre sui social media cinesi si moltiplicano i commenti nei quali viene definito “un eroe, un martire” il medico che aveva lanciato l’allarme sul coronavirus.
Ci sono due hashtag divenuti virali in questi giorni: “Il governo del Wuhan deve le sue scuse a Li Wenliang” e “Vogliamo la libertà di parola” sono stati visti da milioni di persone prima di essere rimossi. In particolare, il secondo dei due hashtag – a quanto afferma la Cnn International – ha raggiunto 1,8 milioni di visualizzazioni prima di essere cancellato da tutte le piattaforme social cinesi.
A sua volta, la Bbc ha parlato della cancellazione di “centinaia di migliaia” di commenti relativi alla morte del medico-eroe. A quanto scrive invece Business Insider, vi sono stati numerosi arresti di persone accusato di aver diffuso “rumors” in rete sul virus. Alcuni giornalisti che avevano riferito dell’epidemia in maniera non considerata conforme sono stati arrestati.
Nonostante che, su ordine di Xi, oggi siano stati mandati altri 2600 medici in più a Wuhan a cercare di arginare l’emergenza, il punto è che quella del coronavirus rischia di tramutarsi in una crisi di fiducia sempre più aperta della popolazione nei confronti del regime.
Dopo la morte di Li Wenliang, la Commissione nazionale che indaga sui funzionari pubblici ha deciso di mandare una propria squadra per indagare in modo “approfondito” sulle cause della morte del medico, tentando così di placare la crescente rabbia popolare.
Qualcuno teme, però, che sia già troppo tardi. Qualcun altro, sulla stampa internazionale, comincia ad evocare la repressione in piazza Tienanmen. “L’ultima volta che ho visto così tante persone svegliarsi è stato appunto nel 1989”, ha scritto un utente in un post poi rapidamente rimosso sotto l’hashtag “voglio libertà di parola”.