È possibile fermare l’avanzata del deserto e recuperare terreni per l’agricoltura, anche nelle zone più aride del mondo, come il Sahel. Ne è convinto Moctar Sacande, l’agronomo che per conto della Food and Agricolture Organization (FAO) sta costruendo, passo dopo passo, un ambizioso progetto che è destinato a coinvolgere almeno 20 milioni di persone su un territorio vastissimo che va dal Senegal, sull’Oceano Atlantico, fino a Gibuti sul Mar Rosso. Ne ha parlato in una Lecture organizzata dalla Fondazione Eni Enrico Mattei.
Dopo anni di negoziati e di sperimentazioni di successo, molte sperimentate sul campo, è arrivato il momento di dare il via al Great Green Wall, il grande muro verde destinato a fermare l’avanzata del Sahara e a cambiare la vita delle persone che vivono in questa delicatissima regione di mondo.
“Il degrado e l’impoverimento dei suoli non è irreversibile. Stiamo lavorando – ha detto Sacande a Milano – a un progetto che punta a recuperare i terreni degradati in una fascia di territorio ampia almeno 15 chilometri che si estende per circa altri 8 mila chilometri e ora siamo a buon punto, abbiamo fatto enormi progressi e siamo pronti per fare il salto di qualità e realizzare davvero questo progetto destinato a cambiare la vita di milioni di persone che vivono in una delle aree del pianeta tra le più vulnerabili alla siccità, alle carestie, alla povertà”.
Tutto parte dal Sahel e dal territorio predesertico
Si tratta di 2,5 milioni di km quadrati di territorio predesertico su cui vivono, al limite della sussistenza, più di venti milioni di persone che lottano ogni giorno per strappare dai terreni aridi e bruciati dal Sole, le poche risorse di cui dispongono e che vengono ogni giorno minacciate dalla continua avanzata del deserto. Contro questo gravissimo problema, nel 2002, le Nazioni Unite, la FAO e i governi dei venti Paesi africani interessati, hanno cominciato a costruire concretamente questa iniziativa che ora conta su un solido partenariato internazionale, che coinvolge anche l’Unione Europea.
E soprattutto, è stato consolidato un bagaglio di esperienze e di conoscenze, accumulati nel corso di cinque anni di sperimentazioni sul campo. Artefice di questa sperimentazione è proprio Moctar Sacande, che in questo periodo è andato villaggio per villaggio in tutti i paesi coinvolti nel progetto, a parlare coi contadini, con le loro mogli, per spiegare che sarebbe stato possibile fermare il deserto, ma che per farlo ci sarebbe stato bisogno del loro lavoro e della collaborazione di tutti. “È molto importante parlare direttamente coi contadini, e far veder loro - racconta Sacande - cosa possono ottenere da questo progetto. La loro collaborazione è indispensabile”.
Tre keyword: coltivare, allevare e ripiantare
Il Great Green Wall infatti non è un semplice muro di alberi che vengono piantati su un territorio più o meno omogeneo, ma un vero e proprio mosaico di soluzioni che si adattano ad ogni villaggio, ad ogni comunità a seconda delle risorse che sono disponibili su quei territori, integrandosi perfettamente con i diversi habitat.
Succede così che in alcune aree si preferisce coltivare soia e altre leguminose, in altre il foraggio per alimentare le greggi e le mandrie, mentre in altre aree ancora si punta a recuperare alberi e arbusti i cui frutti possono nutrire uomini e animali, o fornire sostanze che possono essere utilizzate per altri scopi tra cui anche medicinali.
Come per esempio il balinates, il dattero del deserto (Balinates roxburghii) dai cui semi si ricavano emollienti e sapone. Gli unici elementi in comune sono quelli dell’approccio dal basso, del coinvolgimento dei contadini e quelli delle strategie messe a punto per riuscire a sfruttare al massimo la poca pioggia che cade.
Si (ri)parte dai semi e dai villaggi
“Tutto parte dai semi che vengono in parte raccolti direttamente sul territorio da quelle stesse piante che hanno resistito alle siccità e sono state selezionate a vivere in un ambiente così duro. “In questo lavoro il ruolo delle donne è davvero importante”, spiega Sacande. Sono loro che vanno nel sottobosco a raccogliere i semi che poi vengono fatti germogliare prima di poter essere piantati. In molti casi, le donne sono anche quelle che fanno il lavoro più duro, preparano cioè il terreno per la semina.
Questa è la fase più importante di tutta l’operazione. Per riuscire a trattenere il più a lungo possibile l’umidità necessaria a far vivere le piante, occorre realizzare nel suolo una serie di trincee che accumulano l’acqua. Nell’area infatti cadono in media ogni anno circa 400 millimetri di pioggia che però vengono presto dispersi per effetto dell’evaporazione.
“Con la realizzazione di queste trincee riusciamo a mantenere l’umidità nel suolo per oltre due mesi in più”, racconta Sacande. Questo permette alle piante di attecchire per bene e di garantire così la copertura del suolo anche nella stagione secca. Per favorire poi la ricostituzione del ciclo dell’azoto, elemento fondamentale per la crescita delle piante, nei terreni appena lavorati vengono coltivati leguminose, come, per esempio la soia. Il suolo, così protetto, riesce a conservare più a lungo l’umidità e a rigenerarsi. “È una lotta incredibile, ogni ettaro conta”, dice Sacande.
Come salvare le aree sterminate dal deserto
Tutte queste tecniche sono state sperimentate e monitorate su larga scala in nove diversi paesi. I numeri riferiti da Sacande danno l’idea di quanto sia importante questo progetto in termini di dimensioni. In totale, nel corso di questa prima implementazione del Great Green Wall sono stato messi a coltivazione più di 50 mila ettari sui quali sono stati piantati 25 milioni di alberi e sono state coinvolte almeno 500 mila persone distribuite in 325 comunità.
Ogni singolo progetto implementato sul territorio è stato costantemente monitorato anche con tecnologie aeree, come per esempio droni e satelliti. Dopo cinque anni di lavoro i risultati sono davvero impressionanti: dove prima c’era solo una steppa arida, ora c’è il verde dei prati e dei boschi.
“Il lavoro da fare è ancora tanto”, precisa Sacande. La superficie di terreno che nella regione può essere recuperata con questo tipo di intervento è enorme (825 milioni di ettari) soprattutto se nel progetto si include, come vorrebbe la FAO, anche il deserto del Kalahari, tra Sudafrica, Namibia e Botswana (284 milioni di ettari). Non tutto questo territorio però fa parte del progetto del Great Green Wall.
Primo obiettivo: trovare le risorse
Gli scenari elaborati dalla FAO hanno individuato tre obiettivi da raggiungere da qui al 2030: quello massimo che prevede il recupero di 166 milioni di ettari, mentre quello medio prevede un target di 128 milioni di ettari. L’obiettivo minimo prevede un recupero di almeno 66 milioni di ettari, poco meno del 10 per cento del totale. A
conti fatti, “se vogliamo raggiungere gli obiettivi di sostenibilità, cominciando da oggi, dobbiamo riuscire a recuperare almeno 10 milioni di ettari ogni anno”, sottolinea Sacande. Ora lo scopo è quello di trovare le risorse economiche necessarie a mettere in opera il progetto. I contadini da soli, con la forza delle loro braccia, riescono a fare ben poco.
Ci vogliono almeno cento di loro per lavorare un ettaro di terreno al giorno, mentre con un trattore se ne possono lavorare anche 20 di ettari e si possono fare solchi anche molto più profondi. “Fino ad oggi abbiamo speso in media circa 400 dollari per ettaro, inclusa ogni fase del progetto, dalla formazione, alla raccolta dei semi, alla messa a dimora e al monitoraggio successivo”, dice Sacande. In linea con gli obiettivi dichiarati, vuol dire una spesa che varia da circa 26 a oltre 60 miliardi da investire in 11 anni; in media 4 miliardi di dollari all’anno, davvero tanto per paesi tra i più poveri al mondo.
Stimolo all’economia: ecco come rinascono i villaggi
Recuperare i terreni e metterli a coltura rappresenta però anche un importante ritorno economico, soprattutto in questa parte di mondo dove agricoltura e pastorizia sono voci consistenti nella composizione del Prodotto Interno Lordo.
Per comprenderlo è utile raccontare la storia del villaggio di Tara in Niger, proprio al confine con il Burkina Faso. “In questo villaggio – racconta Moctar Sacande – si svolge un importante mercato del bestiame, molto riconosciuto in tutta la regione, tanto che arrivano mandrie e allevatori da tutto il paese. Uno dei problemi principali è quello di riuscire a mantenere tutti questi animali, perché i pascoli sono diradati e molto poveri e quindi gli allevatori, durante la stagione secca se ne vanno e nel villaggio restano solo le donne. Quando si sono cominciati a vedere i primi frutti del lavoro di recupero dei terreni e si sono cominciati i primi raccolti di foraggio, la storia di questo villaggio è cambiata. Gli allevatori infatti di notte uscivano a raccogliere il foraggio che poi conservavano per il bestiame riuscendo così a mantenere le mandrie in loco e, addirittura a venderlo ad altri pastori. Ora hanno deciso di mettersi insieme in una cooperativa attraverso la quale finanziare il recupero di quote sempre più consistenti di terreni da poter coltivare”