Si intitola 'Mal d'Africa' (266 pagine, 15 euro) il libro scritto dai giornalisti Angelo Ferrari (AGI) e Raffaele Maisto (redattore di Radio Popolare scomparso a marzo di quest'anno) per Rosenberg e Sellier editore nella collana Orizzonti Geopolitici. Libro che arriva in libreria nell'ennesimo momento drammatico di un continente stremato dall'egoismo e dall'indifferenza dei Paesi occidentali, da alcuni mesi mesi alle prese anche con la pandemia da Covid-19. Quello che segue è il capitolo conclusivo del libro, che è possibile scaricare a pagamento da questo link.
AIUTARE L’AFRICA. MA SI DEVE PROPRIO?
Bisogna proprio aiutare l’Africa e gli africani? Di certo il continente africano ha bisogno di giustizia. Le politiche di aiuti, spesso, hanno una doppia faccia: in realtà rendono i Paesi che ne hanno bisogno dipendenti dalla generosità altrui. E spesso la generosità è un pretesto per avere un potere di influenza in quella regione o nella politica del Paese ricevente. Così capita anche che la cooperazione allo sviluppo finisca per essere la longa manus della politica estera dei paesi che così “generosamente” elargiscono aiuti, spesso a pioggia.
L’Africa e gli africani hanno bisogno di questi aiuti? Non sempre, spesso quasi mai. Non c’è dubbio che non si può escludere, addirittura, negare un qualche tipo di aiuto. A volte, invece, è necessario. Basta pensare a tutti quegli africani che operano per lo sviluppo del loro Paese, dal punto di vista politico, sociale, sindacale o intellettuale.
Quasi sempre questi personaggi sono invisibili, sconosciuti nei Paesi che offrono loro aiuto. Spesso sono addirittura in pericolo, hanno bisogno di visibilità per essere meno vulnerabili. Mi è capitato spesso, per esempio, di incontrare nei vari Paesi africani che ho visitato colleghi impegnati nella denuncia dei regimi, puntuali nel racconto della realtà, attenti ai cambiamenti dei loro Paesi. Altrettanto spesso, questi colleghi, si sentivano soli, spaventati da regimi opprimenti. Alla domanda, che spesso rivolgevo loro, cioè di cosa avessero bisogno, quasi mai mi chiedevano aiuti economici, ma sempre appoggio e sostegno alle loro battaglie, al loro impegno per un’Africa più giusta. Chiedevano di fare arrivare la loro voce nel mondo libero. Per loro essere conosciuti all’estero significava, innanzitutto, sentirsi protetti e sostenuti. Non abbandonati. Queste persone sono la cosiddetta “società civile” senza la quale anche la cooperazione allo sviluppo non riuscirebbe a elargire in modo efficacie i propri aiuti.
Eppure noi, con i nostri media enormemente più liberi, con la nostra cooperazione allo sviluppo che può anche fare comunicazione, non valorizziamo a sufficienza questi personaggi che, per lo più, restano nell’ombra e, proprio perché non conosciuti, risultano molto più deboli e indifesi. Sarebbe, tuttavia, nell’interesse della cooperazione allo sviluppo far conoscere, non solo ciò che fanno – spesso è autocelebrazione di sé stessi, “quanto siamo bravi” – ma coloro che ne beneficiano. Cambiare totalmente paradigma.
Qualche anno fa mi ha colpito un piccolo avvenimento. Mi trovavo in Angola – all’epoca era ancora in corso una delle più cruenti guerre civili del continente. Luanda, la capitale era una città in ginocchio con un’economia di guerra che rendeva i prezzi dei prodotti di prima necessità inarrivabili – non che oggi sia molto diverso – per la gente comune, ed era alla fame. La popolazione viveva di aiuti internazionali. Una maestra mi fece una confidenza. Alla domanda “Dove cresce il miglio?”, i bambini della sua scuola rispondevano che cresceva al Pam, il Programma alimentare mondiale, agenzia dell’Onu che portava aiuti alla popolazione.
In quella città cupa, affamata, carissima, una mattina mi sono svegliato con una nuova scritta sul muro di fronte alla casa nella quale dormivo: Forza Angola, tudo passa. Forza Angola, tutto passa. Incredibile. Qualcuno di notte aveva pensato che era il caso di dare coraggio ai propri concittadini. Si era procurato – probabilmente a costi astronomici – vernice e pennello ed era passato ai fatti. Ecco, è quella società civile che va aiutata, sostenuta, resa visibile, rafforzata.
La cooperazione allo sviluppo, per esempio, dovrebbe avere proprio questo nel suo Dna. Ma, spesso, pur nella generosità degli aiuti, si dimentica delle condizioni reali della popolazione. Mi è capitato, durante un viaggio nella regione senegalese della Casamance, di vistare una scuola di villaggio sostenuta dalla cooperazione canadese. Mi sono seduto in classe con i giovanissimi alunni e mi sono incuriosito svogliando i loro libri di studio, donati appunto dai canadesi. In uno di questi libri gli alunni stavano studiando il come comportarsi in certe situazioni. E, devo essere sincero, mi ha fatto sorridere vedere il capitolo dedicato al “come comportarsi in metropolitana”. E’ solo un episodio, ma significativo del fatto che la generosità a volte non tiene in considerazione la realtà che vuole aiutare.
L’Africa, però, avrebbe bisogno di valorizzarsi, di essere consapevole delle proprie possibilità. Il continente dovrebbe ragionare alla pari con il cosiddetto mondo sviluppato e, come abbiamo visto, è ricco di risorse e il denaro circola in enormi quantità – altrimenti non si spiegherebbe l’accanimento dell’occidente – e di persone. La società civile è molto vitale in quasi tutti i Paesi del continente, sente l’urgenza di conoscere e di essere coinvolta. Alcuni cambiamenti radicali sono stati promossi proprio da membri della società civile e da organizzazioni di giovani. Attivissimi in tutta l’Africa, poi, sono i rapper, giovani che raccontano in rima e con la musica l’attualità del proprio Paese, senza fare sconti ai governanti. Molti di loro finiscono in galera, come è accaduto a Teddy Afro in Etiopia, ad Azagaia in Mozambico, a Luaty Beirao in Angola. Insomma, l’Africa è viva e ha un grande bisogno di cambiamento e di partecipazione. Purtroppo deve fare i conti con classi politiche e dittatori che non vogliono perdere il loro potere e non esitano a dimostrarsi brutalmente repressivi.
C’è poi un altro motivo che rende poco incisive le spinte della società civile, ed è un motivo che si fonda sulla storia. Quattro secoli di schiavismo e due di colonialismo non si cancellano con soli cinquant’anni di indipendenza. Quei secoli hanno lasciato il segno, e se li si guarda dalla prospettiva dei tempi storici ci si rende conto che sono ancora troppo vicini per non influenzare l’attualità. Sembra quasi che nel profondo di molti africani, ancora oggi, chi “vince” è bianco. Ecco, gli africani devono superare questo devastante complesso di inferiorità, ma hanno tutti i giorni sotto gli occhi gli effetti della potenza dei bianchi che vanno in Africa: sono quasi onnipotenti – o si sentono tali senza esserlo – hanno denaro e dormono in hotel che nessun abitante locale si può permettere, sono serviti e per un pasto spendono praticamente quello che è l’intero stipendio mensile di un lavoratore locale. Si possono permettere di “aiutare” gli africani con progetti che richiedono migliaia di dollari ed elargire stipendi incredibili a quanti lavorano per loro, bianchi o neri che siano. Insomma, sono dei vincenti e vengono da Paesi che hanno vinto. Tutto ciò alimenta quel complesso di inferiorità, oppure fa accumulare rabbia e risentimento, o infonde un desiderio incontrollabile di migrare, di provare a fare fortuna in quegli stessi Paesi, o, ancora, spinge i giovani verso le organizzazioni criminali e il terrorismo.
Gli africani hanno bisogno di valorizzare se stessi, di conoscere il valore dei loro territori e delle risorse che vi sono contenute o che possono produrre, ma soprattutto hanno bisogno di avere una prospettiva. Più che progetti faraonici, fiumi di denaro, mega infrastrutture, all’Africa servono investimenti veri nelle sue potenzialità, non elargiti per cooperazione o buonismo. Più che di beneficienza o cooperazione, l’Africa ha bisogno di giustizia.
Africa e mondo ricco dovrebbero unirsi in un patto di mutuo soccorso. Valorizzando le potenzialità che entrambi hanno. Percorrendo una strada comune. E’ più che mai necessario un cambio di passo, di paradigma, altrimenti a vincere sarà la massima drammatica che tutto cambia perché non cambi nulla. Questo, come abbiamo visto, va a solo vantaggio del mondo ricco. Ma nel lungo tempo perderanno entrambi.
Nel 2050 un bambino su tredici nel mondo sarà nigeriano, un abitante su quattro sarà africano, mentre l’Europa subirà una decrescita demografica di 30 milioni rispetto al 2017. Numeri da capogiro. Sono stime formulate da vari istituti e enti: dalla Fondazione Bill Gates all’Unicef. Stime, semplici numeri che, tuttavia, dipingono un quadro al quale la politica dovrebbe guardare con attenzione. Una politica con il fiato lungo e non corto come quello che si è impadronita della scena pubblica. La pressione dell’Africa sul mondo ricco sarà enorme. E quando si evocano emergenze migratorie si dovrebbe guardare a quei numeri, gli attuali sono nulla a confronto. Nel 2050 il pianeta sarà abitato da circa 10 miliardi di persone, l’Africa da 2,5 miliardi. I bambini e i giovani sotto i 18 anni nel 2030, nel continente africano, toccheranno i 750 milioni e nel 2050 i bambini raggiungeranno il miliardo. Se guardiamo agli standard minimi internazionali nel settore sanitario e per raggiungere le migliori pratiche in campo scolastico a causa della rapida crescita della popolazione, l’Africa entro il 2030 dovrà avere altri 5,6 milioni di nuovi operatori sanitari e 5,8 milioni di nuovi insegnanti. Il 2050 non è poi così lontano, solo 30 anni. E se aiuto deve esserci è in questa direzione che deve andare.
Se non verranno messe in campo politiche adeguate sia da parte dell’Africa sia da parte del mondo occidentale, il continente è destinato a sprofondare, oppure a trasferirsi altrove, ma il mondo è piccolo. Ad oggi non si vedono politiche adeguate che facciano pensare a un cambio di rotta. Anzi. Prosegue da parte del mondo occidentale l’accaparramento delle risorse africane senza significative ripercussioni sulla popolazione, con il solo arricchimento – smisurato – delle élite al governo dei vari Paesi africani. Crescono i Pil di molti Paesi, spesso a due cifre, ma non cresce l’indice di sviluppo umano.
I Paesi dove la crescita demografica sarà un vero boom sono anche quegli Stati dove vivrà la più alta percentuale di poveri al mondo, circa il 40 per cento. Si tratta della Nigeria dove la popolazione nel 2050 è stimata in 429 milioni di persone, di cui 152 sotto la soglia di povertà, e la Repubblica democratica del Congo il cui territorio ospiterà circa 171 milioni di persone con i poveri stimati in 70 milioni. Nel 2017 i giovani tra i 0 e i 24 anni erano circa 628 milioni, entro il 2050 saranno 945 milioni. Giovani senza alcuna prospettiva di futuro, stante ciò che il mondo sviluppato sta facendo per loro, cioè la retorica stucchevole di aiutiamoli a casa loro. Se prendiamo per buoni tutti questi numeri, e non c’è ragione per non farlo, tra 10 o20 anni la pressione sull’Europa diventerà una vera e propria emergenza, niente a che vedere con la paura e l’insicurezza percepita oggi, con flussi migratori imponenti. E nulla potranno fare le politiche dei porti chiusi e l’innalzamento di muri che verrebbero sbriciolati alla prima spinta. “Questo cambiamento demografico”, come evidenzia un rapporto delle Nazioni Unite, “può essere la più grande minaccia o la più grande opportunità per l’Africa e per il mondo, in base a chiare azioni dei leader, o alla mancanza di esse”.
Tutto ciò impone all’Europa, nel suo complesso, di affrontare ciò che non è emergenza con misure di medio e lungo termine perché, altrimenti, l’emergenza arriverà per davvero e sarà travolgente. I numeri chiariscono, più di ogni altro ragionamento, che per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti africani, che assomigliano sempre di più a dinosauri ancorati al trono non curanti del popolo. Se non si ha il coraggio di studiare un piano Marshall per l’Africa e con l’Africa, a pagarne le conseguenze saranno milioni di giovani africani che si accalcheranno alle frontiere del mondo ricco per trovare vie di uscita e dignità dove ora non la trovano.
L’Africa, tuttavia, rimane un continente molto fragile e soggetta agli shock esterni e si appresta a vivere un grave periodo di recessione. Molti fattori, che si intrecciano fra loro, contribuiranno a un calo della crescita. Alle problematiche endemiche, come la povertà, la corruzione, si aggiungono fattori esterni di notevole impatto sui mercati: shock del prezzo del petrolio, coronavirus che porta con se un calo della domanda turistica e, non ultimo, l’invasione delle locuste nel Corno d’Africa che sta mettendo in ginocchio intere popolazioni già provate dall’insicurezza alimentare.
E’ opinione diffusa che l’epidemia da coronavirus potrebbe colpire duramente le popolazioni africane. Il numero dei casi di contagio – mentre scriviamo – non sono ancora allarmanti, ma i paesi che vengono colpiti crescono e questo preoccupa. La pandemia mondiale, tuttavia, comincia a farsi sentire soprattutto sul piano economico. Già con il dilagare del coronavirus in Cina – Pechino è il maggior investitore in Africa, e anche un importante importatore di materie prime – si sono avute subito le prime conseguenze sui bilanci economici dell’Africa Subsahariana. Un rapporto del Supporting Economic Transformation stimava, a inizio febbraio, un meno 4 miliardi di export. Numeri destinati a crescere. Dello stesso avviso è l’Istituto di studi sulla sicurezza di Pretoria che prevede conseguenze economiche gravi e di lunga durata. Tutto ciò sta avendo ripercussioni fortissime sul turismo e sui viaggi di affari. Quello che serve, inoltre, è un supporto all’economia interna dei vari Paesi.
Stimolare l’economia interna, in momenti di crisi così acuti, è un imperativo. Ma i numeri dicono un’altra cosa. Alla crisi del coronavirus, si somma lo shock del prezzo del petrolio. Un calo considerevole - il barile ha oscillato per giorni tra i 31 e i 34 dollari, scendendo fino a 27 dollari il 18 marzo 2020. Tutto ciò rischia di mettere in ginocchio l’economia di molti Paesi che sono legati a doppio filo alle esportazioni di materie prime e che non hanno saputo investire – negli anni in cui il barile è arrivato a superare i 110 dollari – in una diversificazione economica che mettesse al riparo da shock esterni. E sono molti i Paesi che dipendono – quasi esclusivamente – dal greggio o da altre materie prime.
L’Angola, già all’inizio dell’epidemia di coronavirus in Cina, ha visto diminuire sensibilmente le esportazioni verso Pechino, quando il barile toccava i 54 dollari. Luanda produce circa 2 milioni di barili giorno. Occorre ricordare che il 60 per cento del commercio estero di questo Paese dell’Africa australe è diretto verso la Cina. Adesso è arrivato il calo del prezzo del petrolio. Per un paese già in crisi, questo rappresenta un duro colpo per l’economia del paese. Già nel 2018 la crescita dei settori non legati al petrolio è stata estremamene debole e, tutto ciò si è trasformato in una crescita del debito pubblico.
Un altro colosso dell’economia africana, la Nigeria, si basa sulle esportazioni di petrolio. Paese che già nel 2016 ha subito un shock per il calo delle quotazioni del greggio. Crescita tornata positiva nel 2017 e tra il 2018 e il 2019 è stata trascinata dai settori dell’informatica e delle comunicazioni. Ora il pericolo recessione è molto vicino.
La Repubblica del Congo potrebbe vivere, nuovamente, una crisi importante. L’economia dipende quasi esclusivamente dalle esportazioni di petrolio e legname. Oltre ai legami economici con la Cina, proprio nel settore delle materie prime e con un debito pubblico insostenibile. L’ultimo forte calo del prezzo del petrolio, oltre ad avere avuto un contraccolpo sulle casse dello stato, ha avuto significative conseguenze sull’occupazione e a farne le spese sono state la fasce più deboli e meno qualificate impiegate nelle multinazionali del petrolio presenti nel Paese. Nel vicino Gabon le cose non vanno meglio. Le esportazione del Paese sono composte per l’80 per cento dal petrolio e per il 7 dal legno. Il Paese, tuttavia, importa la maggior parte del fabbisogno alimentare.
Spostandoci nell’Africa Orientale, e solo per fare un esempio, anche il Ghana è a rischio, nonostante le sue velleità petrolifere. Accra, che attualmente produce 195mila barili, spera di portare la produzione a 500mila barili giorno. L’economia, tuttavia, dipende molto dalle principali fonti di esportazione, in ordine: oro, petrolio e cacao, beni soggetti alle oscillazioni del prezzo a livello internazionale. Ma sono molti altri i paesi che stanno subendo le ripercussioni economiche del coronavirus e della volatilità dei prezzi delle materie prime. Gli analisti si aspettano, inoltre, ripercussioni sulle valute africane che potrebbero essere oggetto di vendite, con conseguente perdita di valore. A ciò si aggiunge la fragilità dei meccanismi di riscossione delle imposte. In un contesto globale critico - la recessione mondiale è una certezza - diventa difficile che possano arrivare sostegni finanziari ed economici internazionali.
L’intero continente, non solo l’Africa Subsahariana, corre il rischio che gli sforzi che hanno portato alla creazione dell’area di libero scambio più grande del mondo, vengano vanificati. La chiusura delle frontiere, come misura di contenimento del coronavirus, potrebbe essere fatale.
L’Africa vuole e ha bisogno di giustizia.