USA VS YUAN: LA VOCE DELLA CASA BIANCA

Pechino, 29 set.- Nel duello tra il Senato USA e lo yuan entra in campo anche la Casa Bianca: "L'amministrazione Obama ritiene che la moneta cinese sia sostanzialmente sottostimata" ha dichiarato ieri il portavoce della Presidenza degli Stati Uniti Jay Carney, secondo il quale il governo sta passando al vaglio la norma che mira a penalizzare l'import di prodotti cinesi.

 

"Condividiamo l'obiettivo di esercitare pressioni sulla Cina per spingerla ad apprezzare la sua valuta - ha detto ancora Carney- perché, nonostante Pechino abbia effettivamente adottato alcuni miglioramenti, la sua valuta viene ancora scambiata a un valore inferiore a quello reale". Il portavoce di Obama , tuttavia non ha specificato se la Casa Bianca condivide o meno la norma che si discuterà la prossima settimana al Senato di Washington e che gode di un appoggio bipartisan.

 

La reazione di Pechino è arrivata nel pomeriggio di giovedì: "Speriamo che le due nazioni possano risolvere i problemi sulla base del rispetto reciproco e dell'uguaglianza nel rispetto delle regole della WTO- ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei –invece di politicizzare le questioni economiche e commerciali, un comportamento che potrebbe portare al ritorno del protezionismo".

 

 

"Speriamo che i parlamentari americani salvaguarderanno il tranquillo sviluppo delle relazioni economiche tra Cina e Stati Uniti- ha proseguito il portavoce- e riconsiderino la loro decisione, evitando di spingere ulteriormente sull'approvazione della norma".

 

 

Sull'altra sponda del Pacifico, però, il confronto si preannuncia duro: di che cosa si discuterà la prossima settimana a Washington? La norma proposta dal senatore repubblicano Henry Reid consentirebbe al dipartimento del Commercio di Washington di trattare le valute stimate al di sotto del loro valore effettivo, alla pari con quanto prevedono le leggi statunitensi in materia di sussidi di Stato sulle merci. In pratica, se la legge sarà approvata, le aziende USA potranno chiedere al governo di adottare imposte per bloccare l'import di beni cinesi. L'applicazione delle nuove tasse contro la concorrenza sleale andrebbe adottata caso per caso, ma ci sono i presupposti per un'aspra battaglia commerciale contro Pechino, come dimostra il sostegno di una nutrita pattuglia di senatori democratici: "Dal 2001 a oggi le politiche monetarie cinesi sono costate agli americani 2.8 milioni di posti di lavoro" ha dichiarato la scorsa settimana in una conferenza stampa il senatore democratico Charles Schumer, che conduce da anni una campagna sulla questione.

 

Alle accuse di "dumping monetario", la linea ufficiale cinese è sempre la stessa: l'apprezzamento dello yuan avverrà a un ritmo "ragionevole", e le cause dell'enorme surplus commerciale accumulato da Pechino nei confronti di Washington "vanno ricercate nel blocco che gli Stati Uniti esercitano sulle esportazioni di tecnologie ed equipaggiamenti militari".

 

Attualmente, lo yuan-renminbi non è una moneta convertibile: la Banca Centrale fissa un tasso di riferimento e limita le perdite o i guadagni all'interno di una banda di oscillazione che si situa allo 0.5% rispetto a tale livello.  La Cina, inoltre, limita anche la conversione ai fini di investimento ,e ha ammassato le sue immense riserve in valuta estera - stimate in 3200 miliardi di dollari- anche attraverso la vendita continua di yuan, disposta per evitarne un eccessivo apprezzamento. Le polemiche che circondano lo yuan si sono intensificate dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale: Washington, in particolare, accusa sistematicamente Pechino di mantenere artificialmente basso il valore della sua moneta per aggiudicarsi un vantaggio sleale negli scambi con l'estero. Nel giugno dello scorso anno la Cina ha sospeso l'ancoraggio di fatto al dollaro che era stato inaugurato proprio poco dopo lo scoppio della crisi, e da allora lo yuan si è costantemente apprezzato sul dollaro, anche se ben al di sotto della percentuale sperata dagli americani. Secondo Pechino, infatti, la ragione dell'immenso squilibrio nella bilancia commerciale tra USA e Cina, che pende tutto a favore di quest'ultima, va rintracciato nel blocco esercitato sulla vendita di tecnologia americana, e non nel tasso di cambio dello yuan. Secondo Washington, invece, il sistema per fissare i tassi di cambio adottato dalla Cina le consente di scambiare la sua moneta a un valore tra il 25% e il 40% a quello reale, uno stratagemma che consente al Dragone di inondare i mercati con i suoi prodotti.

 

Lunedì scorso la Banca centrale ha fissato la banda di oscillazione a un nuovo massimo storico, mostrando –secondo molti analisti- la volontà di condurre la lotta all'inflazione anche attraverso una sorvegliata politica monetaria. Il Dragone, insomma, deve navigare a vista, mantenendo lo yuan sufficientemente pesante da evitare nuovi rincari del costo della vita (a luglio l'inflazione è aumentata del 6.5%, record degli ultimi tre anni, e ad agosto ha mostrato solo una lieve flessione), ma anche abbastanza leggero da non rallentare la crescita economica. Secondo il China Foreign Exchange Trade System, giovedì la moneta cinese era cresciuta dello 0.08% e veniva scambiata a quota 6.3938 contro il dollaro. Ma al Senato di Washington, quando discuterà la norma sulle monete svalutate la prossima settimana, questo potrebbe non bastare.

 

di Antonio Talia

 

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