Roma, 29 apr.- Si è conclusa senza passi in avanti la due giorni di US-China Human Rights Dialogue che si è tenuta mercoledì e giovedì nella capitale cinese: è quanto riferito dalla delegazione statunitense guidata dall'assistente segretario di Stato americano Michael Posner. Pechino – ha dichiarato Posner - ha respinto l'appello di Washington ad allentare la repressione sulle voci critiche al Partito messa in atto dal governo centrale e a risolvere quanto prima il caso dell'artista Ai Weiwei, arrestato lo scorso aprile (questo articolo). "Nelle ultime settimane abbiamo assistito a una regressione della Cina in tema di rispetto dei diritti umani ed è su questo che si sono concentrati i colloqui appena conclusi" ha spiegato Posner con chiaro riferimento agli arresti a danno dei dissidenti e attivisti voluti da Pechino in seguito alle "manifestazioni dei Gelsomini" organizzate a Pechino e Shanghai alla fine di febbraio. "Molti alti funzionari statunitensi si sono detti profondamente preoccupati per il deterioramento dei diritti umani in Cina" ha continuato il funzionario americano. Le parole di Posner hanno suscitato le reazioni di diversi gruppi che si battono per la difesa dei diritti umani, primi fra tutti Amnesty International: "Se i colloqui continueranno a non produrre risultati significativi, gli Stati Uniti dovranno valutare seriamente se portarli avanti o meno" ha commentato il direttore di Amnesty International T Kumar.
La delegazione americana, ha inoltre riferito Posner, è riuscita a strappare al governo cinese solo l'ammissione che nelle ultime settimane siano sparite molte persone; poco o nulla, però, è stato rivelato sul caso Ai Weiwei. "Abbiamo ricevuto spiegazioni che non ci hanno convinto" ha continuato Posner senza scendere nei particolari. Ma con molta probabilità Pechino ha ribadito la versione ufficiale del governo sul caso dell'artista arrestato: Ai sarebbe in carcere perché accusato di reati economici. La sua detenzione in cella – il cui luogo è tutt'ora ignoto – non avrebbe nulla a che vedere con il giro di vite sui dissidenti. E se da un lato Washington accusa Pechino di 'scarsa autocritica', dall'altro la risposta cinese non tarda ad arrivare. La Cina non ha esitato infatti a rimandare le accuse al mittente rincarando la dose: "Siamo contro qualsiasi Paese che, con il pretesto del rispetto dei diritti umani, voglia interferire negli affari interni della Cina" ha fatto sapere la portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei. "Gli organi legislatori cinesi continueranno ad analizzare ogni caso singolarmente e nel pieno rispetto della legge" si legge in un comunicato stampa sui colloqui Usa-Cina pubblicato dall'agenzia di stampa Xinhua.
Ma se a Pechino il governo non sembra disposto a parlare di diritti umani, a Kuala Lampur il premier Wen Jiabao è tornato a sorpresa sulla necessità per la Cina di avviare una riforma politica. Il tema era già stato affrontato da Wen in un discorso che si era tenuto lo scorso agosto a Shenzhen (questo articolo), ma in un periodo di stretto controllo e repressione su chi esprime posizioni di critica nei confronti del governo e del regime a partito unico, quella del premier suona come una voce fuori dal coro che secondo molti osservatori potrebbe rivelare una spaccatura ideologica all'interno del Pcc. "La Cina deve incoraggiare il pensiero indipendente tra la popolazione. Se tutte le persone si sentiranno libere di esprimersi e di creare saremo una potenza invincibile" ha detto Wen. "Il Paese deve mettere in atto le riforme economiche, giuridiche e politiche. Solo in questo modo – ha continuato Wen – lo sviluppo della Cina potrà proseguire indisturbato".
di Sonia Montrella
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