Milano, 12 lug.-Guardando all'evoluzione economica e politica della Cina negli ultimi decenni, si riscontra una profonda divergenza: mentre l'economia ha conosciuto la crescita straordinaria che è sotto gli occhi (spesso impauriti) di tutto il mondo, sul piano politico il paese non si è dimostrato altrettanto dinamico. Il Partito Comunista (PCC) continua ad essere di fatto l'unica forza politica in campo, le violazioni dei diritti umani rimangono all'ordine del giorno e Pechino si ostina ad ammiccare a feroci dittature come quelle di Teheran e Pyongyang, nonostante i ripetuti appelli delle potenze occidentali. La domanda che sorge spontanea è: come si è potuto verificare uno scenario simile? In altri termini, che cosa ha determinato una simile divaricazione tra meccanismi economici e processi politici?
Un primo fattore fondamentale è la capacità del Partito Comunista di assorbire all'interno della propria struttura il sempre più ampio ceto medio cinese. Nel 2006, oltre il 20% dei membri del Partito erano manager o professionisti e quasi il 30% era costituito da studenti (ossia, dai futuri esponenti della classe dirigente). Questa strategia di cooptazione ha indotto un sostanziale allineamento tra gli interessi della nuova borghesia e quelli del Partito, neutralizzando così le spinte centrifughe che storicamente nei paesi occidentali hanno portato all'affermazione della liberal-democrazia.
In secondo luogo, la politica economica della "porta aperta" è stata implementata con gradualità: le prime riforme sono state varate da Deng nel 1978, l'apertura ai capitali stranieri ha coinvolto dapprima le province costiere (anni '80) e in un secondo momento anche le aree interne (anni '90), infine nel 2001 la Cina è entrata a far parte del WTO. Non c'è alcun dubbio che la portata di questi mutamenti sia stata straordinaria; il punto cruciale è che il modo progressivo in cui le riforme economiche sono state introdotte ha consentito alla società cinese di assorbirne l'impatto senza soccombere sotto il peso di shock troppo repentini. Il tutto a beneficio della classe politica, che è riuscita a trattenere le redini del cambiamento nelle proprie mani. Inoltre, il Partito ha saputo promuovere il graduale abbandono delle pratiche socialiste in ampi settori dell'economia senza essere tacciato di rinnegare i principi rivoluzionari. In particolare, i leader politici hanno dimostrato grande abilità nel riorientare il dibattito pubblico dall'opposizione socialismo/capitalismo a quella Cina/estero, riuscendo così a giustificare le riforme economiche in nome del sacrosanto interesse nazionale.
Un terzo aspetto da tenere in considerazione è la dialettica tra governo centrale e amministrazioni di livello più basso. A partire dagli anni '80, è stato avviato un processo di decentralizzazione (in particolare, in materia fiscale), che ha notevolmente ampliato le competenze dei governi locali. Da un lato, ciò comporta una serie di problemi di coordinamento tra centro e periferia, soprattutto per quanto riguarda l'implementazione delle politiche. Dall'altro, però, queste riforme hanno contribuito a preservare la legittimazione popolare del governo di Pechino: dal momento che molte decisioni delicate (come quelle in tema di tutela ambientale) sono state decentralizzate, gli eventuali scoppi di malcontento tendono ad indirizzarsi contro gli amministratori locali e non contro quelli del governo centrale.
Svariati altri fattori hanno contribuito al relativo immobilismo istituzionale della Cina: dai molti esempi negativi dei paesi del blocco sovietico (e, specialmente, le aperture politiche di Gorbachev, che hanno indotto il collasso dell'intero sistema) ad elementi insiti nella cultura e nelle tradizioni cinesi. A questo proposito, va ricordato che storicamente in Cina la classe politica è sempre stata scelta sulla base di criteri di merito (basti pensare ai durissimi esami da superare per diventare funzionario imperiale). Il metodo della selezione, piuttosto che della elezione, è quindi il più coerente con la storia millenaria del paese e con il modello confuciano di un'autorità forte ma allo stesso tempo benevola verso la popolazione. Questo suggerisce che probabilmente l'idea stessa di importare la democrazia alla occidentale in Cina debba essere ripensata, a favore di un atteggiamento che, alla valorizzazione dei diritti umani, coniughi una maggiore attenzione per la tradizione culturale cinese.
Per concludere, uno sguardo al futuro. Le problematiche che il Partito Comunista si troverà a dover affrontare nei prossimi anni sono tutt'altro che irrilevanti, a partire dall'instabilità interna data dalla crescente disuguaglianza in termini economici, sociali e legali. Se è vero che gli attuali leader sembrano avere preso coscienza di queste criticità e hanno (almeno parzialmente) ispirato il loro programma a principi di equità e di redistribuzione, ad oggi rimane difficile prevedere quale sarà la traiettoria politica del paese. I discorsi tenuti da Xi Jinping e Li Keqiang (con tutta probabilità, rispettivamente il Presidente e il Premier futuri) alludono spesso alla necessità di una maggiore partecipazione popolare nell'ottica del modello confuciano di società armoniosa. Di certo, simili proclamazioni sono da interpretare, almeno in parte, come puri esercizi di retorica politica, ma comunque confermano la consapevolezza dei vertici del Partito rispetto al problema. Inoltre, non bisogna dimenticare che Xi Jinping è figlio di Xi Zhongxun, un veterano del PCC che nel corso degli anni '80 apparteneva alla frangia più progressista (rivelatasi perdente, alla luce degli eventi di Piazza Tienanmen). Per ora non ci si può che muovere nel regno della speculazione, ma dal 2012, con l'effettivo trasferimento di leadership alla Quinta Generazione, saranno i fatti a parlare.
di Giovanni Compiani
Giovanni Compiani, laureato in Economia e Scienze Sociali presso l'Università Bocconi dove da agosto 2010 è iscritto al Corso di Laurea Specialistica in Inglese in Economics and Social Sciences. Da agosto a dicembre 2009 è stato studente in scambio presso la Harvard University e dal 28 giugno al 9 luglio 2010 ha seguito la quarta edizione della Summer School TOCHINA a Torino. Questo articolo è un commento dell'autore alla sua tesi di laurea "Sviluppo economico e globalizzazione: quale impatto sulla democrazia? Rassegna della letteratura e analisi del caso cinese".
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