Un inviato di ferro per lo Xinjiang
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Un inviato di ferro per lo Xinjiang

Un inviato di ferro per lo Xinjiang

Cina. Il presidente Hu affida a Zhou Yongkang, uno dei nove big del partito comunista, la normalizzazione della provincia
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Luca Vinciguerra
SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Un uomo duro per la linea dura. Superato il primo shock della rivolta di Urumqi, la Cina affida la pratica scottante dello Xinjiang a Zhou Yongkang, l'alto responsabile della sicurezza nazionale e membro del comitato permanente dell'ufficio politico del partito comunista.
Toccherà al sergente di ferro della nomenklatura cinese riportare all'ordine e alla stabilità la turbolenta provincia dell'ovest, teatro nei giorni scorsi di violenti scontri etnici tra cinesi e uiguri (la popolazione autoctona di origine turcomanna e religione musulmana) che hanno lasciato sul terreno oltre 150 morti e circa un migliaio di feriti. Ad affidargli il mandato speciale è stato Hu Jintao in persona, al termine di una riunione straordinaria del Conclave del partito comunista (è composto dai nove massimi dirigenti del Pcc), svoltasi la notte scorsa subito dopo il rientro del presidente cinese dal G-8 dell'Aquila.
Mascella volitiva, sguardo glaciale, lineamenti imperturbabili, Zhou, sessantaseienne originario della provincia del Jiangsu, come tutti i leader della quarta generazione di comunisti cinesi, è un tecnocrate che ha scalato con pazienza tutti i gradini della gerarchia.
Nei primi anni 60, Zhou si laurea in ingegneria, conseguendo una specializzazione in geofisica. Finiti gli studi, entra alla China national petroleum, la più grande società energetica del paese. Alla fine degli anni 90, dopo aver ricoperto per un breve periodo la carica di ministro delle risorse naturali, spicca il grande balzo verso la politica che conta, assumendo la carica di segretario del partito nel Sichuan.
Nella grande provincia del centro-sud cinese, Zhou costruisce sul campo la sua fama di duro. Grazie al pugno di ferro usato sia con le minoranze tibetane, sia con la setta religiosa del Falun Gong (all'epoca molto attiva nelle campagne cinesi) viene individuato dalla nomenklatura come l'uomo politico di riferimento per la gestione degli affari interni.
Così, nel 2003 arriva la nomina a ministro della sicurezza, un dicastero dove Zhou promuove un profondo rinnovamento morale, professionale e tecnologico delle forze di polizia. Quattro anni più tardi, al termine del diciassettesimo congresso del Pcc, entra nel comitato permanente dell'ufficio politico del partito comunista con la maglia numero nove (l'ultimo in scala gerarchica tra i top leader).
Fedele al ruolo delicato che ricopre, Zhou si è sempre tenuto a debita distanza dai media. Di lui è nota solo una frase pronunciata più volte in tempi di crisi, fin da quando governava l'irrequieto Sichuan: «Bisogna stroncare le forze ostili». Con questa idea ben piantata nella testa, Zhou ieri è partito per Urumqi deciso più che mai a portare a termine con successo la delicata missione affidatagli da Hu Jintao.
La prima parte del compito l'hanno già svolto esercito, polizia e corpi paramilitari. I quali, già mercoledì sera, tre giorni dopo lo scoppio dei tumulti, erano riusciti a sedare tutti i focolai di protesta e a isolare le due comunità etniche che hanno messo a ferro e fuoco la capitale dello Xinjiang. Una capitale che ieri è tornata a un'apparente normalità: i negozi hanno riaperto i battenti, la gente è tornata nelle strade, l'attività lavorativa ha ripreso il suo ritmo.
Ora, però, si tratta di riportare Urumqi e l'intero Turkestan orientale a un clima di stabilità duratura. Nell'interesse nazionale, ma anche per l'impatto negativo che la carneficina di domenica scorsa sta avendo sul piano internazionale. La Turchia, che con gli uiguri ha una stretta affinità etnica, è il paese al mondo che ha attaccato più aspramente la Cina: ieri il ministro del Commercio, Nihat Ergun, ha addirittura chiesto il boicottaggio dei prodotti made in China in segno di rappresaglia verso «le atrocità commesse contro la popolazione uigura».
Una popolazione per la quale, alla luce dei tragici fatti di Urumqi, il ritorno alla normalità non può essere solo un ritorno alla solita vita. Dopo quanto accaduto, guardando il conflitto etnico tra cinesi e uiguri in una prospettiva di lungo termine, stabilizzare lo Xinjiang non può significare solo mandare a morte centinaia di ribelli, come si appresta a fare il governo cinese. Oppure, mettere la regione sotto una ferrea tutela militare, seguendo pedissequamente il copione adottato in Tibet dopo la rivolta del marzo 2008.
Per rappacificare lo Xinjiang bisognerà allargare i benefici dello sviluppo e della modernizzazione anche agli uiguri, che finora hanno raccolto solo gli spiccioli del miracolo economico cinese. Passata l'emergenza, e una volta «stroncate le forze ostili», Pechino penserà anche a come gestire il processo di distensione etnico nella tormentata provincia dell'ovest?
ganawar@gmail.com

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Un segnale ai ribelli
Zhou Yongkang (nella foto), uno dei massimi dirigenti del Partito comunista cinese, è stato scelto dal presidente Hu Jintao per affrontare la crisi nello Xinjiang. Toccherà a lui placare le violenze tra i cinesi han e gli uiguri ed evitare che gli scontri etnici di Urumqi si allarghino ad altre città e aree del paese. Per l'Economist (qui sotto la copertina dell'edizione asiatica) lo Xinjiang è un «incubo», il «lato oscuro della crescita cinese»
Zhou Yongkang, 66 anni, personaggio enigmatico con la fama di duro, è il numero nove nel comitato permanente dell'ufficio politico del partito comunista cinese ed è responsabile della sicurezza nazionale

10/07/2009
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