Troppo Google per piacere
ADV
ADV
Troppo Google per piacere

Troppo Google per piacere

MULTINAZIONALI - BUSINESS, CONCORRENZA, DIRITTI UMANI
di lettura
di Alberto Mingardi
Quando le imprese diventano un'altra cosa? Accanto alla categoria del "tbtf", too big to fail, c'è anche quella del "tbtbl", too big to be loved. Il dibattito pubblico è ciclicamente attraversato da brand che a un certo punto finiscono per evocare altro che i prodotti o i servizi che rappresentano. Con il successo commerciale, entra in gioco la categoria del potere economico. Il canovaccio si assomiglia, ma la narrazione cambia con i tempi. Nella società fordista, le aziende si pesavano sulla bilancia dell'occupazione. Un'impresa con tanti occupati chiamava (e chiama) l'interesse della politica, che i capi azienda provano a volgere a loro vantaggio, in un serrato gioco di negoziati e scambi.
Tutela dell'occupazione contro incentivi, misure protezionistiche contro apertura di stabilimenti in aree depresse: una storia che in Italia conosciamo bene. Così s'incontravano economia e potere. C'era un legittimo sospetto dell'opinione pubblica: che la crescita dimensionale servisse anche a comprare un paracadute politico, da aprirsi al momento buono.
Nella società della conoscenza, allora, forse è normale che i sorvegliati speciali siano quelle realtà che possono regolare l'accesso all'informazione: le televisioni prima che internet consentisse un'offerta più plurale e frastagliata che mai, Microsoft quando si ragionava in termini di sistemi operativi e reti locali, oggi Google come grande finestra affacciata sul world wide web. In ciascuno di questi casi, si sono mescolate preoccupazioni di tipo diverso. Alcune di carattere peculiarmente politico: Berlusconi e l'homo videns. Altre legate alla concorrenza, con la tentazione, mai sopita, d'inquadrare il vantaggio sui concorrenti conquistato sul campo come potere di mercato cui smussare gli artigli. Sullo sfondo, la preoccupazione per le dimensioni: la diffidenza per il big business come per il big government, sostanzialmente perché big.
Perciò, le imprese di grande successo sono contemporaneamente scelte con determinazione e perseveranza dai consumatori, premiate per i loro prodotti, e poco amate dall'opinione pubblica. Troppo grandi per essere amate. Persino i sostenitori della libera impresa preferiscono coltivare l'epica delle start up, il mito del piccolo imprenditore che si afferma contro una burocrazia ottusa e concorrenti tanto più grandi e potenti di lui. Ed è difficile tirare la riga, decidere quando Microsoft smette di essere la software house nata in un garage e quando Google non è più la start up fondata da due ingegneri di genio.
Possiamo però dire che la linea viene tirata quando di Microsoft e di Google l'opinione pubblica smette di interessarsi "solo come imprese". Quando i risultati economici si nascondono fra le pieghe dei giornali, e sono altre le ragioni per cui il loro nome finisce nei titoli di prima pagina. Prendiamo Google. Negli ultimi mesi, è stata il punto di convergenza di tremendi attacchi e di strepitose lodi.
È stata accusata di essere il becchino dei giornali. Il suo modello di business (basato sugli introiti pubblicitari) è stato contestato da più punti di vista. L'accusa principe è che Mountain View beneficerebbe della sua posizione dominante, conquistata arrivando meglio e prima di altri a gestire la raccolta pubblicitaria su web attraverso un meccanismo di grande attrattività soprattutto per i piccoli investitori. Persino l'algoritmo di ricerca di Google è stato accusato di essere "biased", di partorire ricerche viziate da alcuni pregiudizi di fondo: è l'opacità del meccanismo, a essere nel mirino dei critici.
Nello stesso tempo, il braccio di ferro con il governo cinese ha prodotto affetto e ammirazione verso questa azienda. A Google in qualche modo viene ricondotto un coraggio che i governi non hanno saputo trovare: quello di porre in discussione lo scarso rispetto (per usare un eufemismo) della libertà d'espressione da parte di Pechino.
Sugli allori o nella polvere, trattiamo sempre Google come altro da quello che è: non un'impresa tesa a fare profitti, ma di volta in volta una sorta d'infrastruttura fondamentale di internet, che andrebbe regolata dai governi con gli stessi criteri che si usano per le reti materiali, oppure un player di politica esterna, una sorta di ong, sulla quale vengono caricate le aspettative di attivisti e osservatori.
Ma Google non è la rete del gas, elettrica o telefonica. La sua infrastruttura è liberamente replicabile, ha dei competitori che fanno il suo stesso mestiere, con meno successo sia per l'efficacia del suo algoritmo di ricerca, sia perché è la prima azienda che sia riuscita a costruire attorno a un search engine un business più vasto, che crea occasioni per potenziare la raccolta pubblicitaria. Questa è la sua attività: è impossibile scindere il bene pubblico e l'interesse privato, perché il bene pubblico (il motore di ricerca) è sostenuto dall'interesse privato (il pubblicitario 2.0).
Né Google è Medici senza frontiere. Il braccio di ferro con Pechino, fra il reindirizzo verso il sito di Hong Kong e il blackout di martedì scorso, non è una battaglia di testimonianza. A che pro restare in un mercato dove la sua quota era assai inferiore che altrove, e la possibilità di operare severamente limitata? Le multinazionali si spostano, scelgono se essere presenti in un paese oppure no sulla base di criteri economici. L'ampiezza di quel mercato e le sue possibilità di sviluppo non sono gli unici fattori: il rispetto dei contratti e dei diritti di proprietà, la certezza del diritto, la tassazione sono aspetti istituzionali che influiscono ampiamente sulla scelta di essere presenti o meno in un territorio.
Semplicemente, le istituzioni influenzano la capacità di un paese di attrarre o meno imprese e investimenti dall'estero. Vista la storia recente delle complesse interazioni fra Antitrust, giustizia italiana e Google, forse dovremmo ricordarlo anche a noi stessi. Non solo ai cinesi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

01/04/2010
ADV