Il 1979 segna l'inizio delle riforme del settore bancario, oltre che di quelle che hanno progressivamente coinvolto tutta l'economia del paese. Tra gli anni '80 e gli anni '90, la spinta riformatrice porta all'affermazione di una molteplicità di attori: alcune grandi banche commerciali di proprietà pubblica, altri istituti a capitale sia pubblico che privato e
Un passaggio cruciale è stata l'ammissione della Cina al WTO nel dicembre 2001, che ha imposto un'apertura completa del settore bancario rispetto alle imprese estere entro la fine del 2006. La minaccia potenziale rappresentata dai competitor stranieri ha indotto il governo cinese ad avviare un massiccio piano di risanamento delle banche statali: si calcola che, considerando solo le cinque maggiori banche a capitale pubblico, sia stato "pompato" nel sistema qualcosa come 420 miliardi di dollari a partire dal 1998. Uno degli obiettivi principali di questi interventi è stato quello di preparare gli istituti di credito a un passo molto significativo (soprattutto alla luce del completo controllo statale vigente in precedenza): la quotazione sui mercati azionari.
Conseguentemente, negli ultimi anni si è assistito ad una serie di IPO da record, che è culminata con la quotazione della già citata Agricultural Bank of China nel luglio scorso. Ma quali risultati sono stati ottenuti in questo decennio di interventi e investimenti da parte del governo centrale? Da un lato, il processo di risanamento e di apertura ai capitali privati ha determinato significativi miglioramenti sul piano dell'efficienza e ha innalzato le banche commerciali cinesi al ruolo di protagonisti sulla scena globale. Un dato per tutti: oggi ben quattro delle prime dieci banche al mondo per capitalizzazione sono cinesi, mentre solo nel 2004 nessuna figurava nella classifica. D'altro canto, lo Stato continua a detenere quote di maggioranza in tutti i principali istituti di credito e, di conseguenza, l'ingerenza della mano pubblica nel settore rimane marcata.
Ciò è emerso con particolare chiarezza in occasione della attuale crisi economica. Mentre in tutti i paesi occidentali i governi hanno dovuto incrementare esponenzialmente i loro deficit per finanziare ingenti piani di stimolo all'economia, Pechino ha imposto alle banche di allentare i cordoni del credito, determinando un balzo nell'ammontare complessivo dei prestiti erogati (dal 102% al 127% del PIL tra 2008 e 2009). Questo si è tradotto in una miriade di investimenti (da linee ferroviarie ad alta velocità a faraonici progetti edilizi), che solo in parte, però, promettono un ritorno economico. Inoltre, secondo l'agenzia americana di rating Fitch, la situazione è aggravata dal fatto che spesso le banche incorporano prestiti all'interno dei prodotti finanziari poi venduti ai clienti: in base alle stime, il totale dei prestiti effettivamente erogati nella prima metà del 2010 supererebbe di quasi 200 miliardi di dollari la cifra ufficiale.
E questo ci riporta al dato iniziale: ben un quinto dei debiti che le amministrazioni locali hanno contratto con le banche sono seriamente esposti al rischio di insolvenza. Quali effetti sono da aspettarsi nel prossimo futuro sulla dinamica economica complessiva? Molti analisti sostengono che questi non-performing loans non rappresentino una minaccia per la stabilità del Dragone, dato l'elevatissimo tasso di risparmio privato che caratterizza l'economia cinese. In altri termini, la parsimonia dei consumatori garantisce che vi siano le risorse per coprire i crediti a rischio delle banche o, quantomeno, per evitare una crisi con effetti sistemici. Ma lo scampato pericolo presente non deve distogliere dal problema di fondo, che rimane: prima o poi, Pechino dovrà modificare la propria strategia di crescita, abbandonando la stimolazione artificiale degli investimenti (possibile proprio in virtù dello stretto controllo sul sistema bancario e, in particolare, sui tassi di interesse), a favore di un approccio che miri innanzitutto ad ampliare il mercato interno.
Infatti, la priorità per lungo tempo riservata agli investimenti, a scapito del consumo (che di recente è persino sceso al di sotto della soglia del 40% del reddito totale) rende l'economia cinese sempre più dipendente dalle esportazioni. Se in un contesto di espansione economica e apertura internazionale un forte sbilanciamento verso l'estero può essere sostenuto con successo, nell'ambito di una crisi globale, che riaccende pulsioni protezionistiche in diversi paesi, la praticabilità di una simile strategia appare decisamente più dubbia. Inoltre, a prescindere dalla congiuntura sfavorevole, non è pensabile che una economia possa basare la propria crescita di lungo periodo sulla sollecitazione di investimenti non redditizi, come quelli che di frequente sono effettuati oggi in Cina. In conclusione, un ribilanciamento dell'economia del Dragone è quasi unanimemente invocato come necessario e questo processo dovrà passare anche tramite ulteriori riforme del sistema bancario, che vadano nella direzione di una maggiore indipendenza.
Istituti di credito più autonomi rispetto al governo centrale, infatti, potranno svolgere un duplice compito: da un lato, disincentivare gli investimenti non profittevoli (soprattutto da parte delle amministrazioni locali), chiudendo la porta del credito ai progetti che non promettono alcun ritorno economico; dall'altro, fornire alla clientela la rosa di strumenti finanziari necessari per assecondare la tanto auspicata espansione del consumo interno.
di Giovanni Compiani
Giovanni Compiani, laureato in Economia e Scienze Sociali presso l'Università Bocconi dove da agosto 2010 è iscritto al Corso di Laurea Specialistica in Inglese in Economics and Social Sciences. Da agosto a dicembre 2009 è stato studente in scambio presso la Harvard University e dal 28 giugno al 9 luglio 2010 ha seguito la quarta edizione della Summer School TOCHINA a Torino.
Questo articolo è apparso su Lo Spazio Della Politica il 23 agosto 2010
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