PECHINO PROGETTA DIGA IN TIBET, I TIMORI DI DELHI

Mumbai, 08 ago. - Siamo nell'ottobre del 2009. Il primo ministro indiano Manmohan Singh è allarmato da alcuni reportage che rivelano i progetti segreti di Pechino: costruire una diga in Tibet che potrebbe diminuire o deviare la portata del Brahmaputra, gigantesco corso d'acqua che irrora le regioni del nord-est indiano e l'intero Bangladesh. Chiedendo conferma alle autorità cinesi, Singh riceve rassicurazioni importanti, che subito rimbalzano sulla stampa nazionale. "Non esiste alcun progetto relativo ad una diga sul Brahmaputra".
Un anno ed un mese più tardi i satelliti indiani fotografano un'inusuale frenesia nella contea di Gyaca - prefettura di Shannan – in Tibet, 17000 abitanti. I lavori della diga che non si doveva costruire erano iniziati.
La diga sullo Yarlung Tsangpo, che valicato il confine cinese prende il nome di Brahmaputra, in India ha fatto versare fiumi d'inchiostro e diffidenza, anche grazie al bassissimo profilo col quale Pechino ne ha annunciato la realizzazione, ben diverso dai proclami in pompa magna della tristemente nota Diga delle Tre Gole.
Denominata Zangmu Hydroelectric Project, secondo la versione ufficiale cinese la diga andrà ad alimentare una centrale idroelettrica da 510 MW (per capirci sulle proporzioni, quella delle Tre Gole ha una capacità di 18000 MW) mantenendo inalterati il corso e la portata del fiume, perciò le preoccupazioni indiane sarebbero del tutto infondate.
L'acqua dello Yerlong Tsangpo verrà semplicemente fatta passare attraverso le turbine, generando corrente elettrica da utilizzare esclusivamente nella regione autonoma del Tibet. Secondo un funzionario cinese dell'ufficio risorse idriche del Tibet "lo sviluppo idroelettrico tibetano è da considerarsi strettamente di auto-sussistenza".
In un lungo articolo pubblicato sul Southern Weekend all'inizio di quest'anno, Jiang Yannan e He Haining svelano come i piani di sfruttamento delle risorse idriche tibetane non siano una novità. Fin dal 1980 numerose squadre di tecnici cinesi hanno fatto studi e rilevazioni sul territorio tibetano, proponendo al governo centrale una serie di progetti di dighe sui cinque fiumi principali del plateau tibetano. Dei 120 progetti di dighe sullo Yerlong Tsangpo vagliati da Pechino negli ultimi 30 anni, quello iniziato nel novembre del 2010 è il primo ad essere passato nella fase di realizzazione.
Oltre all'energia elettrica la diga contribuirà allo sviluppo dell'economia locale: nel gennaio del 2011 i due reporter del Southern Weekend hanno scritto di nuove città create dal nulla, supermarket ed hotel a quattro stelle in costruzione. Se per la Cina si tratta di un piccolo tassello nel grande puzzle dello sviluppo del nord-ovest, India e Bangladesh hanno buoni motivi per preoccuparsi.
Nilim Dutta su Tehelka fa una lucida analisi della questione. Il Brahmaputra, che per oltre il 50% del suo corso bagna il territorio cinese, contribuisce solo per il 7% alla portata complessiva del fiume nel territorio indiano. Una cifra che però, nel periodo di secca indiano, raggiunge il 30%, aprendo quindi tragiche prospettive nell'eventualità di problemi nella fase operativa della diga, che sarà costruita su un territorio ad alto rischio sismico. Un minimo cambiamento nell'intensità del corso d'acqua potrebbe risultare in catastrofiche siccità nelle regioni dell'Arunachal Pradesh ed in tutto il Bangladesh.
Se, come sostengono i cinesi, l'acqua dello Yerlong Tsangpo non sarà deviata per irrigare le ampie zone desertiche delle regioni del nord-ovest cinese – grande timore di Delhi – e si limiterà ad azionare le turbine della prefettura di Gyaca, una volta raggiunto il confine indiano risulterà comunque notevolmente impoverita di sostanze nutritive per il terreno.
Il limo che si accumula lungo il percorso del Brahmaputra, se non filtrato prima di entrare nella centrale idroelettrica, andrebbe ovviamente a danneggiare le turbine; per questo, spiega Joydeep Gupta su ChinaDialogue i tecnici cinesi troveranno il modo di sbarazzarsene prima che vada ad intaccare gli impianti, privando gli agricoltori di India e Bangladesh del contributo fondamentale del fiume alle loro coltivazioni e mettendo in serio pericolo la biodiversità della zona orientale dell'Himalaya. Un paradiso naturale dove, secondo i dati del WWF, ogni anno vengono scoperte 35 nuove specie animali.
Nonostante Manmohan Singh abbia appena rassicurato di nuovo gli indiani sull'inesistenza di una minaccia cinese al Brahmaputra, per la politica indiana la diga tibetana rimane comunque un bel grattacapo politico.
Cina ed India non sono vincolati da nessun trattato di garanzia sui corsi d'acqua in comune, vuoto giuridico che permetterebbe a Pechino, potenzialmente, di chiudere i rubinetti del Brahmaputra senza palesi conseguenze legali. Uno dei recenti accordi tra Delhi e Pechino prevede un reciproco scambio di dati sulla portata del fiume durante il periodo dei monsoni fino al 2012, quando entreranno in vigore nuove misure più strutturate.
Inoltre, guardando alla politica interna, qualsiasi problema idrico in Arunachal Pradesh causato dalla diga cinese manderebbe su tutte le furie il forte movimento anti-dighe che negli ultimi anni ha lottato strenuamente contro la realizzazione di analoghi progetti idroelettrici da parte del governo indiano.
Infine, ritornello immortale dei rapporti sino-indiani, rimane la questione del peso di Delhi nell'alveo della geopolitica internazionale. Impossibilitata nel fare la voce grossa con Pechino – e chi potrebbe farlo oggi? - l'India rischia un'altra misera figura agli occhi del suo popolo. Prima ingannati, poi sapientemente tenuti buoni dalla retorica affabile di Pechino, gli indiani si sentono sempre meno tutelati dal proprio governo, che percepiscono come troppo accondiscendente alle volontà unilaterali del loro vicino più grande, potente, arrogante e pericoloso.
di Matteo Miavaldi
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