Milano, 07 set. - Tra le numerose sfide che la Cina si trova ad affrontare nella sua marcia (finora) trionfale sulla strada della crescita economica, una delle più pressanti è senza dubbio quella della sostenibilità ambientale. L'essere assurta al ruolo di fabbrica del mondo, infatti, ha comportato una violenta accelerazione nel consumo di materie prime e, in particolare, di combustibili fossili, con pesanti ripercussioni sull'ecosistema.
Come sempre quando si parla di Cina, gli ultimi anni sono costellati da una escalation di primati: in vetta alla classifica per emissioni di CO2 dal 2006, primo importatore di petrolio dal maggior esportatore (l'Arabia Saudita) nel 2009 e, secondo i recenti dati dell'International Energy Association, primo paese per consumo complessivo di energia. Incidentalmente – ma è un dato emblematico – in tutti e tre i casi sopra citati, il Dragone ha scalzato dalla vetta della classifica gli Stati Uniti.
Quello dello sviluppo sostenibile in Cina è un problema a due facce. Da un lato, si tratta di una questione interna al paese: il degrado ambientale danneggia direttamente la popolazione, che, in un contesto di crescente mobilitazione della società civile, fa sentire la propria voce sempre più spesso. Basti pensare che il numero annuo di vertenze legate all'inquinamento è cresciuto da circa 100.000 a circa 600.000 nel decennio tra la metà degli anni '90 e la metà degli anni 2000. D'altro canto, i fumi delle fabbriche cinesi hanno effetti che travalicano i confini nazionali, ponendo così il Regno di Mezzo al centro del dibattito internazionale sullo sviluppo sostenibile e, in particolare, sul contenimento dell'effetto serra.
Le autorità di Pechino hanno finora affrontato i due volti della questione in modo differente. Sul piano nazionale, le pressioni sociali, unite a considerazioni di carattere economico (secondo lo United Nations Development Programme, il costo del degrado ambientale raggiungerebbe in Cina il 9% del PIL), hanno portato ad alcuni significativi passi in avanti. Ad esempio, sono stati realizzati notevoli progressi in termini di efficienza energetica grazie alla fissazione di standard più rigidi (come quelli introdotti nel gennaio 2007 per la costruzione di nuovi appartamenti e uffici) e il Governo, avvalendosi della sua longa manus nel sistema bancario, ha iniziato a utilizzare anche la leva del green credit per incentivare condotte eco-compatibili da parte delle imprese.
Pechino sembra, inoltre, essere consapevole della necessità di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e, segnatamente, dal carbone, che copre ancora circa il 70% del fabbisogno energetico complessivo. Negli ultimi anni, ad esempio, sono state prese diverse misure per incoraggiare l'utilizzo delle fonti rinnovabili, a partire dalla innovativa Renewable Energy Law del 2005, poi aggiornata lo scorso aprile. L'importanza strategica attribuita dai leader politici allo sviluppo di questo settore è confermata anche dal grado di protezione commerciale di cui le imprese cinesi godono rispetto alla concorrenza straniera. Si tratta ora di patente protezionismo (come nel caso dei requisiti di contenuto nazionale minimo per la costruzione di impianti fotovoltaici) ora di una tutela più mascherata (consistente, ad esempio, nello sfruttare cavilli burocratici per escludere società estere dagli appalti).
In ogni caso, i risultati non si sono fatti aspettare: negli ultimi anni, la Cina si è imposta come protagonista nel mercato globale delle rinnovabili, diventando il primo produttore di pale eoliche e di pannelli fotovoltaici. Nel complesso, quindi, la questione della sostenibilità ambientale, benché lungi dal potersi considerare archiviata, è stata però affrontata negli ultimi anni a livello nazionale e alcuni segnali paiono incoraggianti.
D'altra parte, sul piano internazionale, Pechino non si è dimostrata altrettanto proattiva. Lo status di paese in via di sviluppo consente alla Cina di sottrarsi agli obblighi del Protocollo di Kyoto fino al 2012 e i leader politici si sono ripetutamente rifiutati di assumersi altri impegni nei confronti dei paesi sviluppati rispetto al problema dei cambiamenti climatici, come esemplificato dal fallimento del vertice di Copenhagen nel dicembre 2009. Una simile posizione, per quanto contestabile e potenzialmente foriera di gravi conseguenze per la stabilità dell'ecosistema planetario, poggia però su un dato inequivocabile: un cinese produce in media meno di metà della CO2 emessa per soddisfare i consumi di un occidentale (addirittura, tra un quarto e un quinto nel confronto con gli Stati Uniti).
Dunque, quali sono le prospettive per il futuro? Sul piano della politica interna, è lecito assumere che l'innalzamento dei livelli di vita porti a pressioni sociali crescenti a favore di una maggiore tutela dell'ambiente, secondo il trend che si è già delineato di recente. Più difficile è azzardare una previsione sulla linea che il Dragone seguirà nello scacchiere internazionale. La divergenza tra decisioni domestiche e politiche sostenute nel confronto con le altre potenze si acuirà ulteriormente o si andrà riducendo? In larga misura, la risposta a questi interrogativi dipende da se e quando la classe dirigente cinese prenderà pienamente coscienza del proprio ruolo nel mutato contesto globale.
di Giovanni Compiani
Giovanni Compiani, laureato in Economia e Scienze Sociali presso l'Università Bocconi dove da agosto 2010 è iscritto al Corso di Laurea Specialistica in Inglese in Economics and Social Sciences. Da agosto a dicembre 2009 è stato studente in scambio presso la Harvard University e dal 28 giugno al 9 luglio 2010 ha seguito la quarta edizione della Summer School TOCHINA a Torino.
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