Roma, 28 mar.- Non solo i prodotti agricoli che arrivano dalla Cina sono spesso sinonimo di scarsa qualità, non solo i prezzi cui vengono battuti sono talmente stracciati da creare concorrenza sleale, ma un'alta percentuale di questi alimenti deriva dallo sfruttamento dei dissidenti detenuti nei campi di rieducazione cinesi. Lo rende noto Coldiretti in occasione della presentazione del primo rapporto elaborato dalla Laogai Research Foundation "Dai lager cinesi alle nostre tavole?". Secondo lo studio condotto dall'associazione del dissidente Harry Wu, "in Cina sono circa un milione i detenuti dei Laogai – spesso attivisti o dissidenti - costretti a lavorare per 15-16 ore al giorno in condizioni disperate. Si tratta di 'un'industria' orientata soprattutto all'agroalimentare che si estende per circa 1,4 milioni di ettari di terreni che producono per il mercato interno e per l'esportazione. Da questi laogai (letteralmente rieducazione attraverso il lavoro), sostiene la fondazione, provengono la maggior parte degli ortaggi e della frutta destinata all'export".
"Siamo di fronte a un fenomeno preoccupante sotto due aspetti: quello etico-morale e quello commerciale-economico" ha commentato il presidente di Coldiretti Sergio Marini in occasione della conferenza stampa che si è tenuta a Roma lunedì mattina. Un fenomeno, appunto, che tocca da vicino l'Italia che vede sbarcare ogni giorno nei porti massicce quantità di beni alimentari provenienti dal gigante asiatico. Un flusso iniziato nei primi anni '90, quando le merci più gettonate erano le pelli e gli animali da pelliccia, e proseguito senza sosta fino ad oggi con ortaggi e alimenti che fanno la parte del leone. Negli ultimi due decenni – fa sapere Coldiretti – il valore dei prodotti provenienti dalla Cina è più che raddoppiato seguendo un ritmo di crescita costante. La Cina ha iniziato la coltivazione di pomodoro per l'industria nel 1990 e oggi, dopo aver superato l'Unione Europea, rappresenta il secondo bacino di produzione dopo gli Stati Uniti.
Un comunicato di Coldiretti dello scorso maggio aveva rivelato che ogni giorno nei porti italiani sbarcano fusti di oltre 200 chili di peso con concentrato da rilavorare e confezionare come prodotto italiano: nei contenitori al dettaglio, infatti, è obbligatorio indicare solo il luogo di confezionamento, ma non quello di coltivazione del pomodoro (questo articolo). Un danno che non riguarda solo i produttori italiani, ma anche i consumatori che spesso si ritrovano sulle tavole pomodoro 'arricchito' con muffe e scarti vegetali di diversa natura, quali bucce e semi di ortaggi, e frutta. Ma dietro l'allarme non ci sono solo questioni sanitarie ed economiche: "Oggi i consumatori compiono degli acquisti più ragionati, spesso scelgono dei prodotti che provengono da agricolture biologiche o dal commercio equo e solidale. L'importazione di alimenti coltivati nei Laogai minano la fiducia del consumatore" ha spiegato l'economista Benedetto Rocchi secondo cui, a lungo termine, i danni potrebbero rivelarsi davvero consistenti. Specie se si scopre che alcune aziende sono 'colluse' con la filiera cinese: si legge nel rapporto della Fondazione che "la Zhongji Tomato Corporation, una delle maggiori catene di produzione di pomodoro che acquista prodotti da diversi Laogai, intrattiene rapporti commerciali intensi con diverse aziende alimentari europee, tra cui un grande gruppo societario campano".
Cosa si può fare per arginare il problema? "Mettere in atto azioni di enforcement legislativo, incrementare i controlli, informare i consumatori e vietare l'importazione e la commercializzazione dei prodotti del lavoro forzato" suggerisce ancora Rocchi. E proprio sull'ultimo punto è già pronta una proposta di legge contro l'importazione dei prodotti del lavoro forzato presentata il 19 novembre 2010 e firmata da oltre 150 deputati di entrambi gli schieramenti. "La nostra legislazione sanziona la produzione di beni ottenuti da uno sfruttamento dei lavoratori, ma non ne vieta l'importazione" spiega Marco Calgaro parlamentare e sostenitore della legge. Secondo il disegno di legge, oltre all'importazione di tali prodotti, è vietato stipulare accordi commerciali con imprese che si avvalgono di manodopera forzata. I sostenitori della legge propongono inoltre l'istituzione di un albo e di un marchio di conformità sociale che sia una fonte di garantisca per quanto riguarda la qualità e la realizzazione dei prodotti. L'albo, cui si aderisce volontariamente, verrà gestito dal ministero dell'Economia e delle Finanze. Le aziende che non aderiscono non potranno usufruire di incentivi e marchi registrati, nonché del sigillo Made in Italy. Sono inoltre previste sanzioni pecuniarie e/o penali per coloro che verranno trovati in possesso di merci del lavoro forzato.
di Sonia Montrella
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