Pechino, 25 feb. - Un anno è un periodo di tempo simbolico. Un ciclo dopo il quale si tendono a fare bilanci. E se non li facciamo spontaneamente, a volte interviene qualcosa a farceli fare. Un anno fa scrivevo del mio primo giorno in Cina: 11 anni fa in termini di calendario solare, un milione in termini di fatti passati sul cielo di questo Paese, una volta alto e blu. Scrivevo di come il cuore di Pechino si sentisse ancora battere anche sotto le fondamenta dei nuovi grattacieli.
Sei mesi dopo, quest'estate, scrivevo di un giro in bicicletta negli hutong, e raccontavo di come sentissi le arterie che pompavano il sangue ai polmoni della città che, da anni e anni, continuava a respirare allo stesso ritmo, sotto le apparenze.
Poi per un po' ho taciuto.
Ho taciuto perché all'improvviso è arrivato uno strano silenzio. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: il silenzio nasconde quasi sempre dei movimenti, delle riflessioni. E come nelle scene di un film in cui mentre il protagonista riflette gli arrivano in testa mille frasi scombinate, ho raccolto commenti che mi sono arrivati, a volte richiesti e altre no. Mentre Pechino non mi raccontava più molto di sé, e io mi preoccupavo. Shanghai è migliorata sul serio...ora sembra una città "vera": detto da un ex pro-Pechino, è stata una frase a sorpresa.
E' molto cosmopolita e ospitale (sempre parlando di Shanghai), quasi come New York, o Londra: detto da un frequentatore per lavoro, frase attesa, ma che ha suscitato una certa curiosità.
Secondo te si pentiranno mai di quello che stanno facendo? Mia sorella in visita a Pechino da un taxi guarda fuori e vede solo palazzi grigi, dal sedile davanti io le racconto che dietro molti di quegli angoli, le casette basse e uno stile di vita parallelo convivono ancora, ma qualcosa sta scomparendo e io vorrei che durasse il più possibile. Sento tristezza.
Shanghai ha conservato un'anima, Pechino l'ha persa: detto da una frequentatrice della Cina da 30 anni, la frase più dolorosa arriva mentre addentando un baozi e scrutando un piatto di orecchie di maiale che cerca senza successo di farsi mangiare, guardo fuori dalla finestra in una limpidissima giornata del mio adorato inverno pechinese.
E poi, la goccia: Ma se abbiamo perso le passeggiate in pigiama, ne valeva la pena? Gianluca Morgese sulle pagine di questa rubrica, mi ha dato il "la" per mettere tutto nel frullatore e dire anche io la mia (questo articolo).
Anche io sono sicura che, come nella Shanghai post-Expo, siano stati fatti qui passi da cui non si tornerà più indietro. E' ovvio, ma sentirlo chiaro dopo mesi di interrogativi è un'altra cosa. Le frasi che ho ascoltato e le domande che mi sono state fatte mi hanno fatto fare un passo fuori dalla nostalgia e dentro la consapevolezza.
Ne valeva la pena?
Se parliamo di noi residenti, purtroppo, forse no: le folkloristiche passeggiate in pigiama nelle vie della modernissima Shanghai e le risate coi tassisti di Pechino ci riportano momenti di spensieratezza. Ma purtroppo non possiamo permetterci il ruolo dei nostalgici e sperare che quei momenti continuino per noi. Anche a me quelle scene scaldano il cuore... ma mi basta guardarmi intorno e lo vedo chiaro, la Cina ha ben altro a cui pensare che il mio cuore.
La Cina ha da pensare al post-Expo; ha da pensare al PIL, al mercato del gas, al dialogo climatico, agli equilibri internazionali. Dovrebbe anche, nella mia modestissima opinione, preoccuparsi di farsi conoscere un po' più profondamente al mondo, ma forse non ha tempo neanche per quello... al mio cuore, quindi, ci devo pensare io.
Se invece parliamo del Paese, allora la questione cambia e, francamente, tutto il mondo si sta arrovellando sulla risposta a questo preciso, tagliente quesito.
Ne valeva la pena?
Riprendo ciò che avevo scritto un anno fa: "Questo lavoro, lo chiamiamo progresso. Certo, in un certo senso lo è. Tutto è sempre progresso, ma sappiamo bene che il progresso è un fenomeno molto più profondo di ciò che indicano nuove costruzioni, nuove strade, nuove metropolitane. E, anzi, è spesso un regresso in altre facce del cubo di Rubik che è la realtà nella sua complessità" .
Nel 2011, camminando per le strade di Pechino, mi sento confusa. E lascio anch'io aperta la domanda: ne valeva la pena?
di Elisa Ferrero
Elisa Ferrero, sinologa classe 1978, laureata in Lingue e Letterature straniere all'Università di Torino, 10 anni dal primo ingresso in Repubblica Popolare Cinese.
La lingua cinese mi appassiona ormai da 10 anni, ma parlo con piacere anche l'inglese, lo spagnolo e il francese, sperimentati tutti in varie fasi della vita.
Una forte attrazione per Pechino nata dal primo giorno mi ha portata a viverci, studiando prima e lavorando poi, dal 2004 al 2007. Vivo nuovamente qui da maggio 2009.
Gli stimoli derivanti dalla conoscenza di diverse lingue straniere e da una propensione per esperienze di carattere internazionale sono molteplici. E' da questi che nasce in me la ricerca continua della condivisione della realtà con le persone lontane. La scrittura e la fotografia, i mezzi che più uso per farlo.
La rubrica "Lettere dalla Cina" ospita gli interventi di giovani italiani che vivono e lavorano in Cina, offrendo spunti di vita quotidiana e riflessioni originali. Andrea Bernardi, Corrado Gotti Tedeschi, Elisa Ferrero e Gianluca Morgese.
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