La prossima frontiera sono le attese delle donne
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La prossima frontiera sono le attese delle donne

La prossima frontiera sono le attese delle donne

La condizione femminile
di lettura
di Giuseppe Berta
Sono ben poche le rappresentazioni degli operai, quando il processo di espansione dell'industrializzazione era al suo apice, che risultino più efficaci del ritratto tracciato nel 1845 da un giovane manager tedesco, giunto a Manchester quando l'espansione industriale era al suo acme, per tutelare gli interessi di famiglia in un'impresa tessile.
La situazione della classe operaia in Inghilterra, il libro che il ventiquattrenne Friedrich Engels scrisse per testimoniare della tumultuosa realtà economica e sociale che gli si era parata di fronte all'improvviso, regge bene alla prova del tempo proprio per un'immediata forza descrittiva che s'impone persino sulla prospettiva ideologica dell'autore. Engels ha codificato per sempre l'immagine della Manchester al culmine della rivoluzione industriale: una città sovraffollata e caotica, dalla crescita disordinata e irrefrenabile, dove gli slum convivevano con le fabbriche in un'atmosfera di umidità impastata con il fumo delle ciminiere.
Guardando alle realtà continentali che sono diventate le nuove «officine del mondo» d'oggi, così come il Lancashire inglese lo era di quello della metà del XIX secolo, affiorano talvolta i paragoni con la scena sociale della prima rivoluzione industriale. Ma sono raffronti che si arrestano subito davanti al senso di differenza che prende osservando stili di lavoro, comportamenti, mentalità collettive e, naturalmente, paesaggi urbani imparagonabili rispetto all'Europa ottocentesca. La Cina evoca, sì, l'industrializzazione di massa, ma insieme le megalopoli costellate di grattacieli, le più sofisticate tecnologie di controllo e di coordinamento, in breve tutti i fenomeni che modellano il profilo di un'iper-modernità aggressiva. Che cosa significa essere operai oggi dentro una società simile? E si può ancora rintracciare un'identità sociale degli operai che ricolleghi l'Asia attuale, in marcia a tappe forzate verso nuovi record di sviluppo, alla nostra storia passata, in modo da gettare un ponte tra il loro presente e il nostro ieri?
Non c'è probabilmente nessuna indagine che aiuti a formulare queste domande in modo migliore e più preciso dell'originalissimo affresco che Leslie T. Chang dedica alle giovani, quasi adolescenti, lavoratrici dell'industria cinese (Operaie, Adelphi, pp. 398, € 24,00). Nata negli Usa da genitori emigrati, Leslie Chang ha lavorato per dieci anni come corrispondente del Wall Street Journal dalla Cina, spendendo una parte considerevole del proprio tempo a Dongguan, popolosa città-distretto sede di un'industrializzazione ipertrofica. Ufficialmente ha meno di 2 milioni di abitanti, ma accanto ad essi va calcolata un'enorme massa di migranti, giunti dalle campagne per lavorare nelle sue fabbriche colossali. Sono circa 10 milioni, ma crescono al ritmo di un milione l'anno. Per il 70% si tratta di ragazze giovanissime.
Spesso hanno meno di vent'anni, disposte a lasciare i villaggi rurali per molti mesi e anni, perdendo i collegamenti con le famiglie per immergersi in una realtà dove il lavoro e una ferrea disciplina produttiva sono tutto. Sono occupate in fabbriche grandi come Yue Yuen, che produce scarpe da ginnastica per marchi come Nike, Adidas, Reebok, Puma: un complesso titanico, che evoca la memoria del mitico stabilimento Ford di River Rouge, nel Michigan. Settantamila addetti al di sotto dei trent'anni che lavorano, dormono, mangiano nelle mense e comprano negli spacci di un universo autosufficiente, dove tutto è finalizzato a massimizzare la produzione.
Chang racconta con partecipazione simpatetica la condizione di giovanissime donne che affrontano un'esistenza durissima, non solo per i ritmi produttivi, ma per le asprezze di una vita che non concede tregua, in cui tutto (amicizie, relazioni affetti) è effimero, tranne il lavoro. Eppure queste giovani appaiono sempre ordinate, ben pettinate, carine, appese al cellulare che è quasi sempre la loro unica connessione con un mondo in trasformazione perenne. Non sono disperate, perché tutte coltivano l'aspettativa o il miraggio di una promozione sociale, affidata allo studio integrativo, alla conoscenza delle lingue e del computer. A differenza delle operaie e degli operai dell'Occidente – che stanno molto meglio di loro, ma che sovente vivono la loro condizione soltanto con rassegnazione – le loro speranze di elevamento e di mobilità individuali sono intense, tutt'altro che sopite. Difficile prevedere che cosa succederà di loro e del loro paese quando, tra qualche anno, si accorgeranno che solo in percentuale minima potranno soddisfare quelle attese.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

06/06/2010
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