La lunga marcia delle Borse cinesi
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La lunga marcia delle Borse cinesi

La lunga marcia delle Borse cinesi

Mercati azionari. Così la crisi modifica gli equilibri internazionali
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Come dighe squarciate da un bombardamento, nei 24 mesi trascorsi tra marzo 2007 e febbraio scorso le Borse mondiali hanno visto la propria capitalizzazione crollare quasi della metà, distruggendo in due anni investimenti (cioé risparmi) per la somma astronomica di 17.200 miliardi di euro. L'onda d'urto della crisi ha cambiato gli equilibri finanziari mondiali. Se il dominio di Wall Street non è ancora in discussione – ma solo pochi anni fa era inimmaginabile che potesse essere anche solo contestato –, lo sfidante di domani alla cintura di "campione dei pesi massimi" tra i mercati azionari si sta già allenando. Il futuro contender però non avrà più il nome né il volto della vecchia Europa, né quello ormai definitivamente accantonato del Giappone. La forza rampante è la nuova Tigre, la Cina. Lo attesta l'analisi sui listini azionari condotta da «Plus24» in base delle statistiche della Federazione mondiale delle Borse (Wfe).
Per dare un'ordine di grandezza alle dimensioni dell'"effetto povertà" scatenato dal tonfo dei listini mondiali, basta osservare che la ricchezza distrutta negli ultimi due anni sui soli mercati azionari è pari a quella prodotta dagli Stati Uniti, prima economia del pianeta, in 19 mesi. È l'effetto collaterale, poco notato ma molto concreto nelle sue ricadute reali, della crisi globale che due anni fa ha preso le mosse dal crollo del mercato immobiliare Usa, si è trasferita a velocità inimmaginabile all'economia "di carta" e poi alla produzione di beni e servizi.
Ma questa gigantesca dissipazione non si è distribuita affatto in modo uniforme: mentre quasi tutti i listini azionari si dissanguavano, chi più chi meno, due mercati riuscivano invece addirittura a rafforzarsi. Sono le Borse cinesi di Shanghai e di Shenzhen che, in due anni, hanno visto la capitalizzazione complessiva crescere di oltre 350 miliardi di euro. La cifra pare esigua, nemmeno il 2% del controvalore complessivo dei listini mondiali. Ma la proporzione è fuorviante: tra marzo 2007 e febbraio 2009 il valore della Borsa di Shanghai è cresciuto di oltre il 30% e di oltre il 20% quello di Shenzhen. Nello stesso periodo le Borse mondiali, al netto della Cina, perdevano oltre il 45%. Letto in questa più corretta prospettiva, il "peso" delle due Borse della Cina popolare è raddoppiato da poco più del 3 a oltre il 7% del valore mondiale. Se gli si somma poi anche il valore della Borsa di Hong Kong, il totale degli asset azionari investiti nei territori controllati da Pechino passa dal 6,5 all'11,3% di quelli mondiali.
Il dato si fa poi ancor più significativo se, invece che con il totale mondiale, il valore delle Borse cinesi viene messo in rapporto con quello di Wall Street, dato dalla somma di Nyse e di Nasdaq. Nel marzo 2007 i circa 2.550 miliardi di euro investiti in azioni a Shanghai, Shenzhen e Hong Kong erano solo un quinto degli oltre 14.600 miliardi di New York. A febbraio 2009, rimasti i cinesi allo stesso livello, rappresentano un terzo degli 8.400 miliardi ai quali è piombato il valore complessivo delle due principali Borse Usa, che nel frattempo hanno accusato un calo di oltre 6.200 miliardi di euro (il 42,5% del loro valore iniziale), pur aumentando – per il gioco delle proporzioni – il loro "peso" sulla capitalizzazione globale di quasi lo 0,5 per cento.
Lette in questo modo, le cifre indicano una realtà diversa. Gli Stati Uniti non hanno capitolato ma anzi "tenuto", si direbbe in gergo sportivo, conservando e anzi migliorando lievemente le proprie performance. Nonostante il lungo crollo e il repentino rimbalzo della propensione al risparmio dei cittadini statunitensi, Wall Street esce dalla crisi confermandosi dunque polo di attrazione dei risparmi mondiali, come d'altronde recita il motto del New York Stock Exchange ("The world puts its stock in us", un gioco di parole intraducibile che può significare "Il mondo ci affida le sue azioni" come anche "Il mondo affida le sue azioni agli Stati Uniti"). Ma se l'uragano non ha scosso le fondamenta bisecolari del Nyse (fondata nel 1792), ha comunque soffiato in poppa alle vele delle leggere giunche cinesi, spinte avanti a tutta forza non solo dall'interesse degli investitori internazionali per le opportunità create dall'impetuoso sviluppo della Tigre, ma anche dall'enorme capacità di accumulare risparmi del suo miliardo e 300 milioni di abitanti "ufficiali", ai quali si aggiungono poi altre decine e decine di milioni di cinesi della diaspora che vivono in tutto il mondo.
La battaglia per il primato finanziario mondiale era ingaggiata da tempo: la crisi, dunque, l'ha solo riaperta modificandone, almeno in parte, gli equilibri. A soffrirne meno sono anche le Borse dei Paesi in via di sviluppo, come l'India e il Brasile, che insieme alla Cina vedono il loro peso complessivo passare dal 29,8% al 45,8% sul totale dei listini mondiali e con oltre 3.850 miliardi di euro "tallonano" il totale delle Borse Ue calate a 4.180. Chi esce assai malconcio dalla redistribuzione mondiale è proprio il Vecchio continente: se nel 2007, combinate, le Borse di Londra, Parigi-Bruxelles-Amsterdam, Francoforte, Madrid e Milano valevano il 61,7% di Wall Street, oggi pesano meno della metà di Nyse e Nasdaq. Con una nota dolente che ci riguarda da vicino: Piazza Affari in due anni ha perso 500 miliardi di euro di capitalizzazione che, in percentuale, segnano un crollo di oltre 61 punti. Il salasso peggiore tra le prime 22 Borse mondiali.
Nicola Borzi
nicola.borzi@ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

11/04/2009
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