Il punto forte? La complessità
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Il punto forte? La complessità

Il punto forte? La complessità

I giudizi. La struttura italiana è stata apprezzata per la sua capacità di raccontare il paese in tutta la sua grande varietà
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Quarantamila visitatori al giorno: il padiglione italiano ha subìto un inatteso assalto che l'ha portato in cima ai più gettonati dell'Expo. Tre testimoni illustri e competenti, cosmopoliti ma in qualche modo legati all'Italia, fortemente intrigati dalla nostra creatività italiana, raccontano il loro punto di vista.
Yue Sai Kan, imprenditrice cinese di successo nel campo della bellezza e dello stile, icona tv e lady dalle frequentazioni internazionali, è appena tornata a Shanghai dopo un breve soggiorno romano. Nessun mistero. Era nel palco d'onore all'opera di Roma al Gran gala del 7 ottobre, organizzato alla presenza dei premier Wen Jiabao e Silvio Berlusconi come ouverture per l'anno della Cina in Italia. Yue Sai non poteva mancare l'appuntamento, è tra le donne cinesi più influenti. Ama l'Italia, da sempre, e il made in Italy con una vera passione per il design, ha una sorella che vive a Roma, è stata una sincera divulgatrice della nostra presenza all'Expo. Già nei primissimi giorni di collegamento con il sito dell'Expo per la sua trasmissione alla tv internazionale di Shanghai, Yue Sai ha avuto come ospite il commissario italiano Beniamino Quintieri, «a very handsome man», chiosa.
«Non ci sono dubbi – dice – per me è stato il migliore tra tutti i padiglioni, così complesso e così particolare». Anche migliore di quello cinese? «Incomparabile, assolutamente. Non è possibile mettere a confronto due diversi modi di vedere il mondo e due culture profondamente antitetiche. Per me ha rappresentato il meglio di quanto offre l'Italia e non ho ripensamenti, il padiglione italiano è stato decisamente il migliore». Yue Sai Kan ha insegnato alla donne cinesi come diventare attraenti curando il loro aspetto, ha creato linee di prodotti cosmetici, ama il design, le sue Case sono ben note, il marchio è ora di proprietà di l'Oreal di cui è vicepresidente per l'Asia. Nata in Cina, emigrata negli Usa, è poi tornata in Cina raggiungendo un successo economico e mediatico enorme.
L'architetto Benedetta Tagliabue, invece, è un talento italiano che oggi vive e lavora a Barcellona. È l'autrice del cesto rovesciato di Cappuccetto rosso, così come viene definito il vicino padiglione spagnolo. Le piace il padiglione italiano? «Oh no, non fatemi questa domanda - risponde – sono italiana, per di più sono amica di Giampaolo Imbrighi che l'ha disegnato». Architetto, però le due creazioni non potrebbero essere più diverse. La replica, a telefono, durante la giornata della Hispanidad (la scoperta dell'America, nel mondo latino si fa festa): «C'è una cosa che vorrei dire: secondo me si è voluto dare un senso di compattezza, di ordine, venato da quelle linee trasversali, nette, alla Libeskind. Tutta questa impostazione mi ricorda in effetti l'architettura dell'Italia anni venti-trenta, con alcune giuste correzioni. Ma ognuno poi dà il messaggio che considera più appropriato». In Spagna l'opera di Benedetta è stata premiata ben prima che si inaugurasse l'esposizione cinese. «Ho preso le mie brave soddisfazioni – dice – e ora iniziamo a lavorare con lo studio Miralles-Tagliabue anche in Cina. C'è un progetto a cui tengo molto, è legato a un pittore nato in zona vicina al Tibet, un signore che aveva conosciuto Picasso. Ebbene - racconta - su questa figura e sul museo che stiamo creando lì sto basando le lezioni per la mia cattedra nel semestre di insegnamento alla Columbia. Penso che tutti siamo stati contagiati e contaminati in meglio dalla grande curiosità e vitalità dei cinesi».
Martin Klaasen, lighting designer basato in Australia con studio a Singapore e Shanghai, collaborazioni con IGuzzini e con il padiglione francese, invece, guarda di notte le torri Greenland dall'altro lato del fiume Huangpu e un po' si dispera, perché «avevano fretta di inaugurarle, i cinesi e non abbiamo esattamente fatto tutto quello che io mi aspettavo, le luci nascono nella mia testa, poi devono essere realizzate bene, tecnicamente, per rendere tutto ciò che si è immaginato». «Non ho visto molti padiglioni specie dall'interno – ammette – però mi sembra che si possa fare una distinzione sostanziale: ci sono quelli che hanno centrato l'obiettivo di spiegare il paese e quelli che non ce l'hanno fatta. L'Italia sicuramente è riuscita a spiegare alla Cina e al mondo la sua complessità, che è data anche dalla estrema varietà delle cose che rappresentano la sua cultura».
Martin corre ad aggiornare il suo blog sulle luci, un post al giorno e l'idea di farne un libro, un giorno (http://lighttalk.via-verlag.com ) ed è già completamente immerso nelle cose da fare in Cina. A Chengdu, capitale del Seichuan, sta lavorando alle luci del Westin palace hotel che fa parte di un nuovo centro commerciale. Non c'è molto tempo per tornare a Shanghai per la chiusura, fa capire.
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17/10/2010
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