Il peso del Far East: in Cina già il 4, 97% delle masse gestite
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Il peso del Far East: in Cina già il 4, 97% delle masse gestite

Il peso del Far East: in Cina già il 4, 97% delle masse gestite

Fondi comuni. Un'allocazione in forte crescita per l'industria nazionale
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Salire in corsa sul treno delle Borse cinesi? Si può: basta scegliere uno dei 53 fondi comuni a gestione attiva o dei 12 Etf che "replicano" i listini della "grande Cina" quotati a Piazza Affari. Con un occhio attento, perché sono strumenti diversi sia per rischio/rendimento che per livello delle commissioni. Non tutti d'altronde selezionano i listini di Shenzhen o Shanghai: alcuni investono su titoli quotati anche a Hong Kong, Taiwan e Singapore. In quella "grande Cina", o Cina allargata, che comprende anche le comunità della diaspora e Paesi non soggetti a Pechino.
Il peso degli asset cinesi sull'industria globale del risparmio gestito è ancora limitato. Efama, l'associazione europea del settore, a fine giugno calcolava che solo l'1,3% dei 17.470 miliardi di euro in gestione ai fondi mondiali fosse allocato in Cina, a fronte del 48,8% degli Usa e al 29,9% dell'Europa. L'ex celeste Impero era preceduto anche da Brasile (5,3%), Australia (4,9%), Giappone (3,7%) e Canada (2,9%). Morningstar stima che su 239 fondi comuni azionari di diritto italiano che investono anche su azioni estere, con masse gestite per 22,84 miliardi, 1,13 miliardi (il 4,97%) siano allocati in asset della "grande Cina". Il record spetta al fondo Gestielle Cina A (scuderia Aletti, tre stelle di rating) che vi impiega il 98% dei suoi 240 milioni investito in azioni cinesi.
Lipper individua però solo 53 fondi comuni azionari venduti in Italia che investono sul mercato della "grande Cina". Di questi, appena nove evitano il rischio di cambio, perché utilizzano come valuta l'euro. Le performance annuali al 16 novembre, in euro, erano comprese tra il 39,6% di JF Singapore A Dist di Jp Morgan e il 6,38% di Parvest Equity China C di Bnp Paribas.
D'altronde, se nell'ultimo anno l'indice S&P di Wall Street ha reso il 16,3% in euro, quello B di Shenzhen ha guadagnato il 39%, lo Straits Times di Singapore poco meno del 36, più del 23 il Taiwan Weighted, quasi l'11% l'Hang Seng di Hong Kong e, sorpresa!, l'indice A di Shanghai è invece in ribasso del 2,7%. Ma le differenze di rendimento dipendono anche dal portafoglio. Le azioni di categoria A a Shanghai o Shenzhen quotano in renmimbi e sono acquistabili solo da investori cinesi o istituzionali esteri "ammessi"; a Hong Kong invece quelle di categoria H, cinesi, e le "red chips", estere, sono aperte anche a investitori esteri. Senza dimenticare un centinaio di Adr su titoli cinesi quotati a New York.
La Cina resterà un'opportunità di lungo periodo. Secondo una recentissima analisi di Goldman Sachs, in Cina il rendimento dell'equity, espresso in dollari, è di oltre il 13% a fronte di meno del 10% degli Usa. Non solo: le azioni cinesi sono meno care di quelle Usa, grazie a un p/e di 16,5 volte a fronte di una media statunitense di 17,5. Ad attrarre è la corsa dell'economia cinese, che insieme a quelle di Brasile, Russia e India supererà il peso economico globale dei Paesi del G7 entro il 2032. Per Tao Wang e Harrison Hu, economisti di Ubs Investment Research, la crescita del Pil di Pechino dovrebbe restare vicina al 9% anche nel 2011 e 2012, sebbene in un trend calante su un valore medio del 7,8% annuo nel prossimo decennio. La Cina sarà sempre più la locomotiva globale, passando da un contributo pari al 12% della crescita economica nel decennio che sta per chiudersi a uno medio del 30% nei prossimi 10 anni.
Ecco perché sempre più investitori comprano un biglietto per il treno che passa da Pechino. Senza dimenticare i rischi: la volatilità delle Borse dei mercati emergenti è storicamente maggiore di quella dei listini dei Paesi sviluppati, la governance più opaca, la situazione geopolitica più instabile.

nicola.borzi@ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

20/11/2010
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